L’Università non ha gli spazi e il personale per gestire la nuova organizzazione. A cui seguirà il test nazionale: crocette erano e crocette rimangono. Ma quel che più colpisce è la mancata considerazione del numero di medici che serviranno tra dieci anni
La settima commissione del Senato ha dato il via libera al disegno di legge delega che rivede le modalità di accesso ai corsi di laurea in Medicina e chirurgia. La ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini, ha salutato con entusiasmo questa decisione sostenendo che si tratta di un passo storico per garantire a tutti i ragazzi l’opportunità di diventare professionisti in ambito medico e ha ricordato che c’è da colmare un fabbisogno di trentamila nuovi medici nei prossimi sette anni. Salvini ha gonfiato il petto affermando che è finito il tempo dei test “a crocette” e che finalmente si premierà il merito.
Dopo avere letto il disegno di legge, mi permetto di non condividere tanto entusiasmo e vorrei spiegare perché.
Gli esami e le crocette
In sintesi, mentre l’attuale regolamento per l’ingresso a Medicina prevede un unico test nazionale a risposte multiple con domande di cultura generale, logica, biologia, chimica, fisica e matematica, in futuro gli studenti interessati a questo corso di laurea dovranno prima iscriversi, senza limitazione di numero, a un semestre comune ai corsi di laurea in biotecnologie mediche e in scienze motorie e superarne gli esami (fisica, biologia e anatomia). Solo a questo punto potranno partecipare al (solito) test nazionale “a crocette” che determinerà chi saranno gli ammessi a Medicina. Gli studenti che non avranno superato il test potranno, se lo desiderano, proseguire l’anno in una delle due facoltà con le quali hanno condiviso il primo semestre di studi.
In sintesi, crocette sono e crocette restano, così come restano, più o meno identiche, le discipline a cui si riferiscono le domande. Vengono però escluse quelle di logica e di cultura generale (9 su 60 nel 2024) delle quali invece oggi si sentirebbe un particolare bisogno.
Certo, prima del test di selezione nazionale vi saranno tre mesi di insegnamento (da settembre a dicembre), ma bisogna capire se il gioco vale la candela.
Il carico di lavoro per le università
Il numero di domande per l’ingresso a Medicina si è assestato negli ultimi anni intorno a 60mila.
Nel 2017 sono stati accettati 9.779 studenti, nel 2022 il numero è salito a 14.332, quest’anno sono oltre 20mila e per quando entrerà in vigore la riforma, si parla addirittura di 25mila.
Questo significa che nel 2025 al primo semestre di Medicina si iscriveranno cinque volte più studenti che nel 2017 e due-tre volte più studenti di quest’anno. Fare fronte a questa folla di nuovi arrivi richiederebbe aule, spazi per le esercitazioni e docenti che mancano all’Università italiana, ulteriormente penalizzata dall’ultima legge di bilancio.
L’unica via d’uscita è dunque quella della formazione a distanza che il disegno di legge infatti propone, ricordando anche come «gli atenei tradizionali possono avvalersi della collaborazione degli atenei telematici» che sono tutti privati e che, ovviamente, dovranno essere remunerati per questo servizio. Viene fatta eccezione per le esercitazioni di anatomia umana che devono essere svolte a piccoli gruppi in presenza, cosa già oggi di difficilissima organizzazione e inimmaginabile con il moltiplicarsi degli iscritti.
In conclusione, non dobbiamo sognare un primo semestre di studi con gli studenti che affollano i corridoi dell’università confrontandosi con i loro pari e con i professori per capire se la carriera medica sia davvero quella a cui vogliono dedicare la propria vita. No, non sarà così. Si tratterà solo di un trimestre di lezioni a distanza, seguite da esami frettolosi (inevitabilmente scritti e “a crocette”) che verranno superati dalla maggior parte dei partecipanti in vista del test nazionale che, come sempre, deciderà chi può entrare e chi resta fuori.
Ma di quanti medici abbiamo bisogno?
Tutto quanto ho scritto fin qui sarebbe il minore dei problemi. Il problema vero è invece quello del numero degli ammessi a Medicina che, come ho già detto, è salito vertiginosamente negli ultimi anni. Se, come dice la ministra Bernini, mancheranno trentamila medici nei prossimi sette anni, è evidente che non saranno i neo-iscritti a Medicina a colmare questo buco.
Considerando il corso di laurea e la successiva specializzazione (obbligatoria per essere assunti in ospedale), questi medici saranno infatti pronti per entrare in servizio tra nove o dieci anni. La domanda giusta da porsi é allora: «Di quanti medici avremo bisogno fra dieci anni?».
Chi ha prodotto un’attenta analisi del problema è stata l’Associazione di medici ospedalieri Anaao-Assomed che dipinge uno scenario molto diverso da quanto ci si potrebbe immaginare. È infatti vero che oggi i medici italiani sono i più anziani d’Europa e che ancora per qualche anno assisteremo a un picco di pensionamenti. Dal 2028 però le cose cambieranno perché i pensionamenti diminuiranno drasticamente e inizieranno ad arrivare i nuovi medici che si sono iscritti all’università dopo il 2018. A conti fatti, già con l’attuale numero di iscrizioni, tra un decennio ci troveremo con molte migliaia, se non addirittura decine di migliaia di medici in esubero.
Questo dopo aver sovraccaricato le strutture universitarie, riducendo inevitabilmente la qualità dell’insegnamento e finendo per svalorizzare il “capitale umano” che tanto orgogliosamente si dice di voler formare per risollevare le sorti del Servizio sanitario nazionale.
In conclusione, siamo di fronte a una scelta che non inciderà più di tanto sulla selezione dei candidati, ma costerà soldi e fatica a un sistema universitario già in ginocchio, offrendo una volta di più il triste spettacolo di una politica incapace di programmare con uno sguardo rivolto al medio e al lungo termine.
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