«Era lei che dava fastidio a mio figlio, che non ha fatto nulla di male. Era lei che rompeva le scatole tutte le sere a chiamare a casa e quello è un uomo, cosa doveva fare».

Correva l’anno 1976 e a sfogarsi davanti alle telecamere della Rai non era uno dei tanti padri padroni che all’epoca dominavano in casa a suon di botte e umiliazioni, ma una donna. Ovvero la madre di un imputato in quel “Processo per stupro” trasmesso dalla seconda rete in prima serata, che per la prima volta rendeva il pubblico testimone degli insulti inflitti nei tribunali alla dignità delle donne.

Un evento mediatico trasformato in un atto di denuncia per riprendere non solo le udienze, ma un mondo o meglio una cultura: quella che da secoli si schiera a difesa del diritto del maschio a prendersi la preda, in nome della sua virilità. E già perché la cultura dello stupro non è arrivata con i barconi carichi di immigrati, ma è tutto frutto della nostra mentalità patriarcale. Che la donna sia un essere irrazionale, incostante, di indole leggera, decisamente passionale e dunque bisognoso della tutela maschile, è scritto nei nostri classici. «Quando avranno la parità, le donne ci domineranno» scrive Tito Livio riportando una frase di Catone il Censore, che considerava le donne «animali indomiti» da assoggettare con la forza.

Il patriarcato 

Ci sono uomini che oggi sostengono tutto sia cambiato per le donne. E che il nuovo diritto di famiglia del 1975 abbia segnato la fine del patriarcato. Certo non si può negare che in nome dell’art. 30 della Costituzione quella riforma abbia cancellato l’esistenza del capofamiglia, introducendo la parità dei coniugi nel mantenere, istruire, educare i figli.

Peccato che le donne abbiano dovuto attendere il 1981 per veder abolito l’istituto del matrimonio riparatore che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale se lo stupratore (anche nel caso di una minorenne) sposava la sua vittima. E se si guardano certe realtà del sud Italia in quegli anni, la fotografia è di un paese dove alle donne è vietato passeggiare in piazza o parlare in pubblico senza il consenso dei maschi di casa.

Persino ammazzare una donna non è reato se in ballo c’è l’onore e il buon nome della famiglia. Per la legge italiana l’uomo ha il diritto di difendere il proprio focolare domestico, fino all’omicidio di quelle mogli (ma ci vanno di mezzo anche figlie e sorelle), che non rispettano il dovere della verginità.

Una pena di morte discrezionale per tutte quelle ragazze scandalose e spregiudicate, considerate di indole leggera perché cambiano fidanzato o hanno relazioni libere senza essere sposate. Se poi il compagno le abbandona incinta, trasformandole in madri nubili di figli illegittimi, lo stigma dell’immoralità è un marchio che perseguita a vita e che costringe le “disonorate” a cambiare città, ad essere cancellate per sempre.

Il linguaggio

Le donne che si ribellano alla prigione della virtù sono dunque avvisate: essere uccise se il proprio comportamento non piace all’uomo geloso non è reato. Violenza e omicidi ci dicono che l’Italia non è mai stato un paese per donne.

E non lo è tuttora se è vero che l’attenuante della “tempesta emotiva” o “l’eccesso di rabbia” informa ancora il linguaggio (non di rado volgare) della stampa chiamata a commentare casi di stupro, svuotando di significato le violenze di uomini ossessionati e frustrati, incapaci di gestire l’abbandono.

«Vorrei che Filippo sparisse, ma minaccia di uccidersi. Mi sento in colpa». Sono state le ultime parole di Giulia Cecchettin, che si gettava la croce addosso per la fine di una relazione.

Ecco, forse questo andrebbe insegnato alle giovani ragazze. A fuoriuscire una volta per tutte dal ricatto della cura del maschio a ogni costo e non essere “mamme” per i propri uomini, quando si cessa di essere il loro oggetto del desiderio.

Essere meno fragili emotivamente conviene in questo mondo: perché non sta scritto da nessuna parte che le donne debbano sempre comprendere o perdonare (anche in nome della rinuncia alla propria felicità) come se fosse una sacra missione.

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