Le disuguaglianze, a cominciare da quelle attinenti al potere, tutt’altro che solamente politico, creano le premesse della violenza, a partire da quella degli uomini, soprattutto quando gli uomini temono di perdere il ”loro” potere, e la perpetuano. Società meno disuguali sono possibili, perseguibili, conseguibili, meglio vivibili. Altre soluzioni mielose rischiano di essere non soltanto prive di validità, ma controproducenti.
Il patriarcato ha le sue, anche molte, colpe, ma è sbagliato usarlo come se fosse la “madre” esclusiva di tutti i tragici intollerabili fenomeni di femminicidio, in Italia e altrove. Analizzati a fondo, gli oramai moltissimi casi di femminicidio prodottisi in Italia negli ultimi anni rivelerebbero motivazioni differenti, tutte da prendere in serissima considerazione, molte delle quali hanno poco o nulla a che vedere con il patriarcato inteso come “dominio naturale dell’uomo sulla donna” (degli uomini sulle donne).
Se, comunque, il fattore preponderante fosse davvero e unicamente il patriarcato, probabilmente la soluzione non potrebbe essere né soltanto né principalmente quella di impartire ai bambini/e lezioni di “affettività”. Più efficace sarebbe applicare la Convenzione di Istanbul che investe tanto il livello educativo scolastico quanto tutta la sfera socioculturale e, in special modo, la correttezza del linguaggio nell’informazione.
Certo, una società “affettuosa” potrebbe riuscire a contenere, ridurre, fino quasi a eliminare la violenza degli uomini sulle donne, ma la persistenza del patriarcato continuerebbe a fornire agli uomini la giustificazione che la loro pratica di violenza contro le donne è anche segno di “affetto”: insegnare a quelle donne ciò che debbono fare anche nel loro stesso interesse.
Sappiamo che questo ragionamento giustificazionista è piuttosto contorto, ma siamo altrettanto consapevoli che è diffuso e in non pochi luoghi, condiviso e accettato. Rimproveri, scappellotti, punizioni dei più vari tipi servono, anzi sono indispensabili per mettere chi sgarra sulla buona strada. Sono anche segno di (malposto) affetto, proveniente da chi dice e pensa di volere bene e volere fare del bene. Alcune religioni non hanno dubbi: le donne sono esseri inferiori agli uomini, nate per servirlo, consentitemi qualche esagerazione, perinde ac cadaver.
In Italia, salvo qualche eccezione, siamo da tempo oltre questa deplorevole visione del mondo e dei rapporti uomo/donna. Rimangono, temo, alcune sacche di pregiudizi gravi che si nascondono e tentano di riprodursi. Cercando una spiegazione complessiva bisogna, suggerirei, affrontare la tematica dei femminicidi paragonando i differenti paesi, mettendoli in ordine di gravità del fenomeno. La classifica dovrebbe andare dai paesi nei quali la percentuale dei femminicidi è più bassa a quelli nei quali raggiunge i vertici. La mia ipotesi è che la variabile interpretativa più possente e convincente è quella della disuguaglianza.
Paesi disuguali in termini di risorse, di istruzione, di cultura, di status, di trattamento delle persone hanno un tasso di femminicidi nettamente superiore a quello dei paesi meno disuguali. Laddove ciascuno si impegna e opera per trattare gli altri/le altre come sé stesso la violenza non ha spazio, non è il modo con il quale si risolvono i conflitti interpersonali compresi naturalmente quelli fra uomini e donne. Il riconoscimento della pari dignità, del pari valore, delle pari opportunità di scelta e di attività significa che nessuno prevale sugli altri/e, che nessuno impone la sua volontà, meno che mai, con la violenza, che nessuno ha diritto a privilegi, esenzioni, ossequi.
Sono le società egualitarie in questo senso, il senso del rispetto di tutti verso tutte, quelle che possono e riescono a contenere fino a sostanzialmente bandire la violenza interpersonale. Non è necessario volersi bene, provare affetto reciproco, che può trasformarsi in dolorosa delusione, per costruire una società non violenta. Invece, è essenziale riconoscere pari dignità a tutti, rispettandone le scelte di vita che non intralcino quelle altrui. Le disuguaglianze, a cominciare da quelle attinenti al potere, tutt’altro che solamente politico, creano le premesse della violenza, a partire da quella degli uomini, soprattutto quando gli uomini temono di perdere il ”loro” potere, e la perpetuano. Società meno disuguali sono possibili, perseguibili, conseguibili, meglio vivibili. Altre soluzioni mielose rischiano di essere non soltanto prive di validità, ma controproducenti.
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