La questione sociale è un progetto per il paese. Serve una conferenza programmatica per coinvolgere tutto il partito. Sul ‘centro’, è una sciocchezza voler appaltare un pezzo della rappresentanza
Prendendo a prestito il titolo di un recente film credo sia giunto il tempo per il Pd e il centro sinistra della “grande ambizione”. L’ambizione, per dirla con Bobbio, di «risollevare la bandiera della giustizia sociale».
Partiamo da un dato tanto chiaro quanto eluso nella discussione pubblica e negato dalla destra: il nostro Paese porta i segni drammatici di una enorme questione sociale. Quindici milioni di donne, uomini, anziani e bambini combattono con la povertà, relativa o assoluta. Quattro milioni e mezzo di persone rinunciano a curarsi. Oltre tre milioni di lavoratrici e lavoratori sono sottopagati. Quasi il 50 per cento delle donne non ha un lavoro e quelle occupate hanno stipendi mediamente più bassi degli uomini. Più di un ragazzo su dieci abbandona la scuola.
Ogni anno nascono meno bambini. Il ceto medio scivola inesorabilmente verso l’impoverimento. Il Mezzogiorno è soggetto a spopolamento e desertificazione industriale. Tutti gli anni vengono evasi 85 miliardi di tasse e l’economia sommersa – evasione fiscale e contributiva, sfruttamento della manodopera, mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro – cresce e rappresenta circa il 10 per cento del Pil. Purtroppo questa lacerante questione sociale, dopo due anni di governo di una destra mossa da furia ideologica e animata da rozzo accanimento verso le fasce più deboli, si è dilatata.
A partire da questa realtà spetta a noi, forza progressista, riformista e popolare, costruire un Progetto per il Paese, come lo ha definito di recente la segretaria. Anche perché direttamente legata alla questione sociale è la questione democratica. Si alimentano a vicenda e sono proprio le fratture che attraversano la società a creare disincanto e sfiducia verso le istituzioni rappresentative.
Come recuperare l’astensionismo
Se vogliamo rimettere in circolo passione e partecipazione per contrastare l’astensionismo, non sono ricette di ingegneria istituzionale o soluzioni da uomo o donna sola al comando care alla destra a venire in aiuto, ma una politica che assuma la questione sociale a perno del suo progetto di cambiamento.
Non è un lavoro semplice, perché c’è da misurarsi con un paradigma individualista che ha svuotato la convinzione che il destino personale è strettamente legato al destino della classe o della comunità di riferimento: viviamo il paradosso di provare un senso di angosciante solitudine e rifuggiamo dall’idea di condividere il nostro destino con gli altri, anche i più vicini. Paradigma figlio di una logica che ha fatto del mercato non solo una regola dell’economia, ma una “legge sociale”.
Per dare un percorso ordinato ma anche ricco e fecondo a questa riflessione penso che la strada migliore sia una conferenza programmatica, così da coinvolgere tutto il partito, metterlo in dialogo con l’intera società e approdare al Progetto Paese da portare in dote al confronto con i soggetti interessati a battere la destra.
La sciocchezza di appaltare il “centro”
A questo punto però va detta una parola chiara su un tema che riaffiora nel dibattito mediatico e talvolta anche al nostro interno. Secondo questa tesi il Pd dovrebbe sostanzialmente rinunciare a rappresentare un pezzo dell’area di centrosinistra appaltandola ad altre formazioni. A me pare una macroscopica sciocchezza.
Questo schema politicista, frutto di geometrie astratte, sconfessa la natura del nostro partito, nato per parlare a tutti quelli che credono nel progresso sociale, nella giustizia, nell’economia sociale di mercato, nel rifiuto – per dirla con don Milani – di “fare parti uguali tra disuguali”.
Nel Manifesto del 2008 scrivevamo (lo dico da “nativa democratica”) che il Pd intendeva essere non espressione parziale di segmenti più o meno grandi della società, ma forza nazionale che ambiva a dare rappresentanza alle articolazioni e alle autonomie civili, sociali e istituzionali proprie del pluralismo della storia italiana e della complessità della società contemporanea. Sono passati 16 anni, ma quella sfida è attuale e per certi versi incompiuta.
Quella che chiamavamo vocazione maggioritaria non va intesa come autosufficienza – del resto la storia e la matematica ci dicono che il successo è legato alla costruzione di coalizioni – ma è una spinta da recuperare per rivolgersi alla società nel suo complesso, alle sue ferite, in contrapposizione ad una destra che quella società non vede se non nella somma di individui. Insomma a me pare che la strada tracciata in questi anni di esperienze ed anche errori, certo, non vada abbandonata e sia anzi necessaria al Progetto Paese da costruire.
© Riproduzione riservata