«In ventiquattro anni di governo il centrodestra ha governato per 3.886 giorni, il centrosinistra per 3.335. Siete quindi quantomeno corresponsabili dello sfascio della sanità, della scuola e della giustizia». Nell’aula di palazzo Madama, sabato mattina durante l’ultimo confronto sulla manovra, ai senatori Pd non è sfuggita la “stecca” dell’ex ministro Stefano Patuanelli, un M5s alleanzista: mentre accusava la maggioranza di un legge di bilancio tutta tagli e austerità, ha sganciato un colpo a freddo ai colleghi dell’opposizione. Schermaglie d’aula, niente di che.

Ma segno che l’anno nuovo si riaprirà come si è chiuso quello vecchio: con i Cinque stelle che cercheranno di rialzare i consensi sfidando i dem. La proroga dell’invio delle armi all’Ucraina, fra i primi provvedimenti alle camere a gennaio, sarà il primo invito a nozze.

Non è l’anno dell’alleanza

Gli attacchi del M5s non preoccupano troppo il Nazareno. Il punto è la prospettiva: al netto degli accordi alle regionali e alle amministrative – a partire da Genova, dove il centrosinistra partirebbe in vantaggio ma Pd e M5s non si sono ancora chiariti sul nome da candidare – quando sarà praticabile un confronto su un programma, o come lo chiamano nel Movimento, su un «contratto»? «Non nel 2025», è la risposta di molti.

Elly Schlein esibisce pazienza e spirito unitario, convinta che sia una delle ragioni per cui cresce il suo partito. Quanto ai propositi per l’anno nuovo, all’assemblea nazionale ha annunciato che si dedicherà a consolidare il Pd. Nel partito, la segretaria ha accumulato tutta la forza che le serve. Il 2024 è stato un anno più che positivo: il partito è andato benissimo alle europee e alle regionali; da quando lei lo ha preso in mano ha recuperato circa quattro punti percentuali (dal 19,1 per cento delle politiche del 2022 al 22,5 di oggi, secondo il sondaggista Nando Pagnoncelli, ma per il Nazareno sono otto, partendo dai sondaggi di fine 2022, che lo davano intorno al 14).

Il clima interno è cambiato, la solidità della segretaria – che guiderà il prossimo voto politico, quindi farà le liste – ha silenziato la consolidata tendenza ai battibecchi interni, tanto che lei può vantare «un Pd mai così unito». L’alleanza di centrosinistra, certo, è al palo: ma su questo Schlein si dà tempi più lunghi. E comunque molto dipende da Conte. E dalla galassia centrista, che per ora gira a vuoto: Renzi si offre alla coalizione, ma M5s e Avs lo escludono dal perimetro del centrosinistra; Azione prepara un congresso dove (di nuovo) farà professione di autonomia; infine dell’area cattolica democratica che potrebbe raccogliersi intorno a Ernesto Maria Ruffini non dà segni: al Nazareno credono che abbia più chance da federatrice la neopresidente dell’Umbria Stefania Proietti.

Di massa e di piazza

Resta che Schlein fin qui ha fatto un gran lavoro, come scommettevano i big che l’hanno sostenuta al congresso. Quello che non funziona, a sentire le voci (dem) di dentro, è il profilo del nuovo Pd: è vero, ha ritrovato una connessione sentimentale con il suo popolo; e lo ha ritarato su temi «concreti» (sanità, salario minimo, scuola). Ma gli ha impresso il marchio di un partito condannato all’opposizione. Magari un grande partito d’opposizione, di massa e di piazza.

Dipende dalla cultura politica di Schlein, spiega qualche anziano, «radical e movimentista», dalla sua età. Persino le tessere del Pd che ha scelto parlano di opposizione: nel 2024 quella con l’immagine degli occhi di Berlinguer, nel 2025 quella con la parola «Unità», la vecchia testata del Pci fondata da Antonio Gramsci. Belle: ma fatalmente un richiamo a un partito che, per quanto avesse cultura di governo da vendere, era costretto all’opposizione dalla geopolitica dell’epoca.

Sarà un caso, ma i dirigenti «simbolo» del Pd di governo – cioè di governi di larghe coalizioni che oggi Schlein rinnega – sono stati accompagnati con garbo fuori dalle stanze dei bottoni: come Enrico Letta, fuggito per la seconda volta dal parlamento; oppure l’ex premier Paolo Gentiloni, finito il mandato da commissario europeo ora lavora per l’Onu ma è guardato con sospetto di centrismo.

Va aggiunto anche Andrea Orlando, più volte ministro, nobilmente applaudito perché ha scelto di occuparsi della Liguria; e Nicola Zingaretti, mandato a Bruxelles a dirigere l’indirigibile delegazione degli europarlamentari; e Dario Franceschini, che si tiene un passo indietro per favorire il rinnovamento del partito, che pure sorveglia con apprensione; e infine il gran maestro di coalizioni vincenti Romano Prodi, che lancia messaggi preoccupati da tv e quotidiani.

Meno eskimo più governo

Qualche giorno fa Luigi Zanda, un altro dei padri fondatori che ha fatto un passo di lato, ha consegnato in chiaro alla Stampa la questione: «Penso che Schlein sia molto precisa e esauriente nell’elenco delle rivendicazioni. Ha vinto elezioni importanti, va ringraziate sostenuta. Ma il tema di fondo è che non è sufficiente l’elenco delle rivendicazioni, bisogna spiegare l’idea che sia dell’Italia, dell’Europa. Si potrebbe fare di più, spiegare come raggiungere gli obiettivi. Per essere credibili bisogna dimostrare di essere una forza di governo».

Giusto ieri allo stesso giornale, Pier Luigi Bersani, l’ex segretario Pd sostenitore di Schlein dai tempi della lista Emilia Coraggiosa, ha arpeggiato sulla stessa musica: «Mentre denunciamo i disastri della maggioranza, dobbiamo dare una risposta all’altezza. Altrimenti rischiamo un altro anno a pane e propaganda».

Ma come si fa a trasformare il Pd di Schlein da grande partito di opposizione a credibile partito di governo, di blazer più che di eskimo, con proposte in grado di dialogare con tutto il paese, non solo con la riscoperta classe operaia della Cgil di Maurizio Landini; che non abbiano l’aria di un taccuino dei desideri, buono a scaldare gli animi della sinistra dispersa, ma che non abbia l’aria di essere destinato a un cassetto di palazzo Chigi, in caso di vittoria?

Qui, nei conversari riservati, le ricette divergono a seconda della corrente di appartenenza dell’interlocutore. In tutti prevale l’esigenza di far emergere «una cultura di governo». I riformisti, la minoranza che ha perso il congresso ma che ormai ha stretto un patto con la segretaria, spiegano che serve maggiore visibilità a un «Pd plurale»: non solo ai propri volti, quanto e soprattutto a quelli degli amministratori – sindaci, ex sindaci e presidenti di regione –, uomini e donne indubbiamente «di governo», ma anche di consenso, visto che hanno versato le proprie riserve di voti alla cassa comune del Pd.

I filoatlantici, gli inflessibili pro Ucraina, scommettono tutto su un solido posizionamento internazionale: la prossima discussione sull’aumento di finanziamenti alla difesa non deve trovare un Pd che strizza l’occhio a disarmisti pacifisti e movimentisti, ma che si piazza come capofila della battaglia per una difesa comune europea.

La sinistra interna infine chiede una «conferenza programmatica»: perché, sull’esempio del premier spagnolo Pedro Sanchez, il socialismo è roba da professionisti, non da collettivo di «okkupanti».

Vasto programma, insomma. Ma una cosa è certa: l’anno che sta per iniziare è un anno fondamentale: mal che vada si vota nel ’27, ma qualcuno punta su elezioni anticipate ’26: il Pd e la sinistra devono farsi trovare pronti. Ora non lo sono ancora.

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