- Le proposte economiche del centrodestra sono piene di incertezze e contraddizioni interne su flat tax, pensioni e reddito di cittadinanza
- Le dinamiche della coalizione sono cambiate e oggi la posizione della destra nazionalista è nettamente prevalente sul liberalismo di Forza Italia
- Il partito di Giorgia Meloni unisce corportivismo, statalismo e protezionismo e il suo programma sembra ignorare la situazione dell’economia italiana, con un debito pubblico elevato e aziende a controllo pubblico che sono veri e propri buchi neri per le casse dello stato
Il programma economico del centrodestra è pieno di preoccupanti incertezze. Divisioni interne persistono sull’attuazione della flat tax, su come e quanto tagliare il cuneo fiscale, sul reddito di cittadinanza e sulle pensioni, con Matteo Salvini che rispolvera la vecchia abolizione della legge Fornero, Silvio Berlusconi che vuole alzare le pensioni minime a mille euro e Giorgia Meloni che preferisce tenersi sul vago.
Posizioni non confortanti visto che l’Italia è già il paese europeo che spende maggiormente in pensioni in rapporto al Pil. Anche l’ipotesi a revisione del Pnrr, avanzata da tutta la coalizione, non ha al momento dei contorni identificabili. Tuttavia, al di là delle singole politiche, a destra l’elemento più interessante è l’evoluzione del rapporto stato-mercato.
Destra nazionalista
Nel 1994 Berlusconi vinse le elezioni con la promessa di una rivoluzione liberale, cioè di una radicale defiscalizzazione e liberalizzazione dell’economia. Al suo progetto si affiancava la Lega nord che vedeva nello stato unitario e nella sua burocrazia un male da eradicare attraverso il federalismo. C’era poi la posizione minoritaria di Alleanza nazionale che invece manteneva una posizione da destra nazionalista, sociale, protezionista e corporativa.
Oggi, in uno scenario molto cambiato dopo la fine del ciclo neo-liberale che invece era al suo apice negli anni Novanta, è oramai nettamente prevalente la posizione della destra nazionalista. Le liberalizzazioni sono state accantonate, basti vedere le posizioni dei partiti sui taxi e sui gestori balneari, la concorrenza è vissuta come un problema, le aziende italiane tutte devono essere protette dalla competizione globale e lo stato deve tornare a farsi imprenditore.
Golden power
Sintomatica di questa tendenza è la dichiarazione di Giorgia Meloni sull’estensione dell’uso del golden power, cioè l’intervento dello stato per sventare acquisizioni estere su aziende strategiche per l’interesse nazionale.
Il problema è che, a sentire gli esponenti di Fratelli d’Italia, tutto oramai sembra essere strategico, con uno stravolgimento di senso del golden power. Un conto è proteggere qualche decina di aziende in settori tecnologici o militari dalle scalate cinesi, altro è usare la normativa come strumento protezionista generalizzato. Le aziende hanno azionisti e potenziali investitori che sarebbero pregiudicati dai continui interventi governativi in settori non strategici, il mercato smetterebbe di funzionare arrecando un danno all’economia tutta.
Bislacca appare inoltre la proposta di una fideiussione obbligatoria per le aziende extracomunitarie che vorranno produrre in Italia. Quanto si complicherebbe la vita agli investimenti americani nel Belpaese tra garanzie richieste e l’aumento di burocrazia ad esse legata?
La politica industriale
Non meno preoccupanti sono alcune idee di politica industriale. Da giorni esponenti di Fratelli d’Italia spargono ai quattro venti dichiarazioni su Tim, una società quotata, con azionisti privati, strategica e molto indebitata, aumentando l’incertezza del suo destino. C’è chi vorrebbe un’opa della Cassa Depositi e Prestiti su tutto il colosso delle telecomunicazioni e chi invece vorrebbe scorporarne l’infrastruttura per la fibra.
Ma ha davvero senso parlarne in campagna elettorale e senza bilanci, di Cdp in primis, alla mano? Non va meglio nel caso di Ita. L’ala più sociale di Fratelli d’Italia non ha dubbi: la compagnia non va venduta, deve restare di bandiera. Dopo un salasso a danno dei contribuenti durato decenni si vorrebbe tenere pubblica una società che senza partner privati non può essere competitiva per ammissione del suo stesso top management. Nulla impedisce al governo di conservare una partecipazione di minoranza nell’azienda, ma sarebbe l’ennesimo suicidio per le casse statali pensare di tenerla tutta in mano pubblica.
È vero che siamo oramai entrati in un ciclo economico di maggiore interventismo statale a livello internazionale, ma non si possono ignorare le peculiarità italiane. Un’economia ancora feudale in certi settori, con un debito pubblico elevato e alcune aziende a controllo pubblico che sono un vero e proprio “buco nero” per i contribuenti. Un sistema che a breve dovrà rivedere le sue priorità per salvare industrie e famiglie a basso reddito dalla crisi energetica, finendo probabilmente sotto stress finanziario.
Una situazione che fino ad oggi la destra, che potrebbe guidare il paese tra poche settimane, sembra voler ignorare preferendo una proposta disorganica che unisce corporativismo, statalismo e protezionismo. Il mondo dei produttori, che come notato da Stefano Feltri in un suo editoriale è pronto ad appoggiare l’ascesa della nuova destra al governo, è sicuro che questa sia la ricetta giusta?
© Riproduzione riservata