Mentre Tel Aviv colleziona successi sul versante estero, si riaccende il conflitto istituzionale interno, con il fedelissimo di Netanyahu, Yair Levin nella parte di alfiere del governo. I due scenari non sono affatto slegati
È tutt’altro che marginale, e/o sganciata dal più ampio quadrante mediorientale, la polemica esplosa in questa giorni fra il ministro della Giustizia Yariv Levin, fedelissimo a del premier Benjamin Netanyahu, e la Corte Suprema, che ha imposto al governo di procedere alla riunione del comitato di selezione giudiziaria per eleggere un giudice capo permanente entro il 16 gennaio.
Con una risposta che assomiglia ad un’inversione dell’accusa, Levin ha criticato il procuratore generale Gali Baharav-Miara di approfittare della guerra per esautorare la Knesset, chiedendone la rimozione. La tecnica dilatoria del governo è fin qui stata adottata perché tutti sanno che non ha la maggioranza nel comitato per eleggere il proprio candidato conservatore Yosef Elron, a cui probabilmente verrebbe preferito Isaac Amit come giudice ad interim.
Tattica resa possibile, guarda un po’, dal prolungarsi ad infinitum del conflitto a Gaza, che sembra non trovare soluzione nemmeno nella politica di ridisegno del Medio Oriente a cui stiamo assistendo in questi giorni, per molti versi storici. Il modo in cui Netanyahu tenta di svincolarsi dalla morsa è la stessa resa esplicita durante l’ultima udienza dei suoi processi, ripresi regolarmente il 3 dicembre, sempre per volere della Corte. La stessa che ha imposto l’estensione della leva per i haredim (ultraortodossi), che minacciano un giorno sì e l’altro pure di far cadere il governo se assecondasse questa richiesta.
Incarnando una retorica di guerra, Bibi si fa forte dei propri successi militari, che ora hanno pure portato Israele ad occupare l’intero Monte Hermon, non solo centro sciistico del Paese, ma, soprattutto, punto strategico per dominare dall’alto eventuali mosse sul suolo siriano. Di qui a proporsi come difensore degli interessi nazionali e, ancor di più, come liberatore di un Medio Oriente già pronto a festeggiare la caduta del regime iraniano il passo è breve.
Una strategia solo apparentemente rozza. Sotto la patina di una retorica populista per molti versi scontata e scritta in partenza, c’è la mefistofelica capacità di intercettare i più vari interessi: da quelli dell’esercito e dell’intelligence, che per la maggior parte hanno sempre ritenuto inevitabile uno scontro con l’Iran e i suoi proxies, fino a quelli degli stessi israeliani e delle stesse israeliane da anni impegnati/e a manifestare indefessamente contro di lui, che, però, col sette ottobre hanno definitamente seppellito le esigue speranze di pace con simili vicini.
Non parliamo, poi, degli interessi americani, sauditi, delle monarchie del Golfo, dei turchi, ai quali si può proporre un piano di spartizione della Siria che già appare delinearsi in questi giorni (a dispetto delle rassicurazioni di al Jolani, si registrano attacchi delle forze siriane filoturche contro le milizie curde).
E sarebbe anche uno scacco per l’opinione pubblica occidentale, che già oggi è impegnata in acrobazie intellettuali per festeggiare la caduta del regime di Assad, mantenendo la condanna per l’azione militare israeliana che ha permesso l’esito a cui assistiamo oggi. Magari facendo passare i cosiddetti ribelli, il cui pedigree parla da solo, in alfieri della democrazia autocefali, invece che definirli per ciò che sono: proiezione interna di interessi strategici stranieri, in primis turchi e, proprio, israeliani.
Il che non assicura che Frankenstein non sfugga al controllo del creatore, come già visto con Isis, appoggiato inizialmente da Erdogan in funzione anti-sciita e nemmeno visto troppo male da Israele, che poteva godersi la posizione di villa nella giungla, per usare l’espressione resa celebre dall’ultimo Premier laburista Ehud Barak.
Ridurre, però, tutto questo scenario ai processi di Netanyahu sarebbe una semplificazione brutale e fuorviante: la situazione israeliana non fa che confermare la crisi del modello democratico in cui abbiamo visto sorgere una componente identitaria che vede nel principio di separazione dei poteri un ostacolo ad ambizioni ed interessi nazionali e la democrazia liberale una stagione da archiviare.
Ovunque abbiamo una fazione liberale ed una sovranista, che ha il suo modello fondativo nella democratura putiniana. La terza guerra mondiale a pezzi si combatte anche all’interno dei confini di ogni nazione.
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