- Potrebbe sembrare cosa di poco conto in un’epoca di politica liquida, ma il nome di una nuova organizzazione politica è il suo primo atto ufficiale, la sua prima autocollocazione.
- A questo proposito viene da dire che “Insieme per il futuro”, il nome scelto da Luigi Di Maio e i parlamentari che hanno scelto di seguirlo non brilla né per originalità, né per chiarezza.
- Insieme a chi? Per quale futuro? Non sfugge poi il fatto che usare la parola “insieme” per un soggetto che nasce da una scissione e non dall’aggregazione di due o più forze politiche è quantomeno un po’ contraddittorio.
Potrebbe sembrare cosa di poco conto in un’epoca di politica liquida, in uno scenario istituzionale dove il gruppo parlamentare più numeroso è quello misto, punto d’approdo dei tantissimi transfughi dai partiti d’elezione, ma il nome di una nuova organizzazione politica è il suo primo atto ufficiale, la sua prima autocollocazione.
A questo proposito viene da dire che “Insieme per il futuro”, il nome scelto da Luigi Di Maio e i parlamentari che hanno scelto di seguirlo non brilla né per originalità, né per chiarezza. Insieme a chi? Per quale futuro? Domande a cui il nome di una organizzazione politica dovrebbe rispondere, semplificando la sua riconoscibilità e la sua collocazione agli occhi dei cittadini. Non sfugge poi il fatto che usare la parola “insieme” per un soggetto che nasce da una scissione e non dall’aggregazione di due o più forze politiche è quantomeno un po’ contraddittorio.
Per quanto riguarda l’altro sostantivo “futuro”, il termine fa da sempre parte del vocabolario della politica, ma raramente è stato inserito nel nome. L’utilizzo politico più rilevante è cosi stato così quello di “Fare Futuro”, fondazione politica creata da Gianfranco Fini e Adolfo D’Urso nel 2007 con il compito di disegnare l’evoluzione politica dell’estrema destra italiana, arenatasi assieme alle vicende politico-giudiziarie del suo fondatore.
Sinonimo di “futuro” che ha goduto di una maggior diffusione in anni recenti è stato invece “progresso”, e la sua declinazione “progressisti”. Ma mentre progresso contiene in sé una visione, una interpretazione della storia quale un ininterrotto processo di emancipazione e miglioramento delle condizioni di vita, il termine “futuro” è da questo punto di vista completamente neutro.
Originalità cercasi
Con tali premesse, Gabriele Maestri, appassionato studioso dei simboli e dei nomi dei partiti, ha avuto buon gioco a segnalare che solo alle elezioni amministrative del 2022 c’erano ben quattro liste con questo nome e allargando lo sguardo agli ultimi 5 anno si raggiunge il non trascurabile numero di 50. All’insegna dell’originalità.
Nel momento in cui le appartenenze e le identità ideologiche hanno cessato di essere gli elementi distintivi e caratterizzanti dei soggetti politici, anche i loro nomi hanno progressivamente iniziato a cambiare e a scolorirsi. A partire da quella che per gran parte della prima repubblica è stata la prevalente forma organizzativa della politica: il partito. Sostantivo che rappresentava un elemento imprescindibile del nome prima ancora della sua collocazione ideologica: comunista, socialista, liberale, socialdemocratico, ecc.
Con la non secondaria eccezione della Democrazia cristiana e del Movimento sociale, pressoché tutti gli altri principali attori politici della prima repubblica si premuravano di inserire nel nome la loro ragione sociale. Una pratica alla quale non si sottraevano nemmeno formazioni politiche non proprio di rilevanza nazionale, aggregate sulla base di criteri anagrafici e sociodemografici quali il Partito dei pensionati, il Partito dei cacciatori, sino al Partito dell’amore fondato nel 1991 da Moana Pozzi e Ilona Staller.
C’è da dire che quello appena nato più che un partito è un gruppo parlamentare, il frutto di una scissione maturata nei palazzi. Qualcosa di diametralmente opposto al partito digitale, partecipativo, post burocratico, che rappresentava una delle grandi originalità del Movimento 5 stelle e poteva essere a ben ragione visto, quello sì, come un passo nel futuro della politica e delle forme di rappresentanza.
Resta l’interrogativo di come si chiameranno i membri di “Insieme per il Futuro”. Semplicemente “dimaiani” in osservanza alla personalizzazione della politica, oppure “futuristi”. E oltre alla sensazione di straniamento che prende nel pensare di definire Di Maio un futurista, è difficile non pensare ad una frase di un futurista doc, Filippo Marinetti, il quale nel Manifesto tecnico della letteratura futurista scriveva: «Si deve abolire l’aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale». Insieme per il futuro difficilmente gli sarebbe piaciuto.
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