- Qualche settimana fa l’European research council (Erc) ha pubblicato i risultati dell’assegnazione del primo gruppo di Erc starting grants 2021, le borse di studio destinate a giovani ricercatori nell’ambito del programma Horizon Europe che durerà fino al 2027.
- Gli italiani sono al secondo posto per numero di borse ottenute, ma preferiscono stare alla larga dal loro paese; mentre gli stranieri non hanno troppa voglia di venire da noi.
- Oggi l’Italia perde i suoi giovani scienziati con lenta ma inarrestabile emorragia, senza saper inventare nulla per trattenerli e, più ancora, per attirare stranieri.
Qualche settimana fa l’European research council (Erc) ha pubblicato i risultati dell’assegnazione del primo gruppo di Erc Starting Grants 2021, le borse di studio destinate a giovani ricercatori nell’ambito del programma Horizon Europe che durerà fino al 2027. La somma in distribuzione non è indifferente: 619 milioni di euro, che finanziano quasi quattrocento progetti (un milione e mezzo ciascuno in media) per le tre categorie ammesse: scienze fisiche e ingegneria, scienze della vita, scienze sociali e umanistiche.
Verificando la distribuzione geografica si scopre con soddisfazione che gli italiani sono al secondo posto per numero di borse ottenute (58), dietro solo ai tedeschi (67), ma staccando, e non di poco, francesi (44), olandesi (27), britannici (12) e tutti gli altri. C’è da far festa, allora, no? Sembrerebbe di sì, e invece no! Se si spulciano i lunghi tabulati, concentrandosi sulla colonna che indica il «paese ospite», si scopre che solo 28 dei 58 giovani italiani faranno il loro lavoro in patria.
Pochi vengono in Italia
Gli altri trenta lavoreranno in università e centri di ricerca europei e israeliani. Per cercare conforto, si fa allora la prova inversa: quanti stranieri hanno scelto l’Italia come “paese ospite”? Anche qui c’è la sorpresa amara: dei quasi quattrocento vincitori, solo quattro stranieri vengono in Italia. Il paese di gran lunga più ricercato è la Germania, seguita da Regno Unito, Francia, Svizzera e Spagna.
La sintesi è facile: gli italiani sono tra i più bravi ma preferiscono stare alla larga dal loro paese; gli stranieri non hanno troppa voglia di venire da noi: neanche i siti più cool, come lo Human technopole di Milano o l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, gli interessano più che tanto. All’opposto è il Regno Unito: i giovani britannici hanno solo dodici borse, ma da loro accorrono 46 dei vincitori. L’Italia, insomma, sembra aver vinto, ma è perdente. La storia, purtroppo, è vecchia ed è stata raccontata mille volte.
La trama era già chiara nelle tabelle dei premi Nobel. Dei 21 Nobel italiani, gli scienziati e ricercatori sono quattordici. Di questi, ben undici hanno svolto all’estero le ricerche che li hanno portati alla vittoria. Gli unici italiani che abbiano ottenuto il Nobel per ricerche svolte in Italia sono Guglielmo Marconi (nel 1909!), Enrico Fermi (1938) e Giulio Natta (1963), tutti, insomma, in un’epoca che possiamo tranquillamente considerare pre moderna.
Emorragia di talenti
In pratica, oggi l’Italia perde i suoi giovani scienziati con lenta ma inarrestabile emorragia, senza saper inventare nulla per trattenerli e, più ancora, per attirare stranieri. Serve a poco che nel 2020 le cancellazioni di residenza in patria per stabilirsi all’estero siano scese, probabilmente a causa della pandemia: sono state 112.218 (il 45,5 per cento donne), in diminuzione per la prima volta nel corso del millennio (-8 per cento) rispetto alle 122.020 del 2019. Si può allora dire che, se l’emigrazione generale tende leggermente a diminuire, quella intellettuale e accademica, la più preziosa anche in ragione di quel che è costata, rimane invariata.
I nostri politici non sembrano avvertire l’immenso danno neanche da lontano. Non mi pare di aver sentito nessuno dei capi di governo e ministri dell’università e della ricerca (Miur) dire una parola su questo tema negli ultimi anni. Forse non è per caso che nel sito del Miur non si trovi nulla circa il risultato degli Erc Starting gGrants 2021.
Per indurre gli espatriati a rientrare non s’è saputo fare altro che inventare la legge “Controesodo” (2010), che concede discutibili vantaggi fiscali in cambio dell’impegno a restare in Italia per un po’ di tempo. Non stipendi maggiorati per gli “impatriati” (come la legge bizzarramente li chiama), ma sconti fiscali da tre a dieci anni, dal 50 al 90 per cento (per chi si impegna a comprare una casa di residenza, ha dei figli o si stabilisce al sud).
Molti degli impatriati, però, dopo qualche semestre se ne sono tornati nel luogo da cui erano venuti. Evidentemente non volevano solo essere pagati di più, volevano qualcosa di più importante. I risultati degli Erc Starting Grants fanno capire di che si tratta: strutture, laboratori, risorse e carriere quali l’Italia non offre. Ciò mostra che il vero problema non è farli tornare con piccole leggi ad hoc, ma dargli buoni motivi per non andarsene. Chissà se dal Pnrr potrà uscire qualcosa che avvii a soluzione questo problema.
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