Il titolo sulla prima pagina di Repubblica «Kiev, la nostra Normandia» può forse soddisfare gli animi più irriducibili nell’idea che la Russia vada sconfitta sul campo di battaglia. Ma se credessimo nel pericolo di una nuova minaccia nazista, avremmo l’obbligo di immaginare un intervento immediato della Nato anche al costo di un dispendio spaventoso di vite. Anche solo ipotizzare uno scenario simile è un atto di irresponsabile follia
Kiev, la nostra Normandia. Così il titolo di Repubblica il giorno dopo la celebrazione dello sbarco di 160 mila soldati americani all’alba del 6 giugno 1944.
A corredo citazioni dei discorsi pronunciati da Eisenhower e Ronald Reagan in altri decennali.
Il senso? Dimostrare quanto quella data simbolo per la sconfitta del nazismo vada considerata monito di ogni generazione e del nostro stesso tempo. Tradotto, nel conflitto perenne tra il Bene e il Male nessuno può sottrarsi al proprio compito, neppure oggi di fronte al pericolo di un’Ucraina annessa alla spietata dittatura russa.
Eccolo il senso di quella titolazione: Kiev, la nostra Normandia. Ma è davvero così?
Si può veramente ragionare usando come parametro storico quella data, ciò che l’aveva preceduta e ciò che ne è seguito? Lo chiedo perché nella tragedia della nazione aggredita da Putin due principi a me paiono da scolpire.
Uno è la certezza che Kiev non può essere abbandonata al suo destino. Per questo è stato e rimane giusto sostenere con ogni mezzo, compreso l’aiuto militare, la resistenza di quel governo e di quel popolo.
L’altro principio è compiere ogni sforzo per fermare questa “inutile strage” che da ventisette mesi sta letteralmente distruggendo una nazione e la sua gente. Oltre mezzo milione di morti, tra soldati russi, ucraini, e civili innocenti, donne anziani bambini.
Perché la guerra, ogni guerra, non è retorica, epopea, epica eroica. Ogni guerra è morte, sofferenza, distruzione.
Allora la domanda diventa un’altra: come si ferma l’orrore? Come possono tacere le armi, rendere credibile una tregua, e di lì una trattativa capace di fermare le spinte verso la temuta escalation di un conflitto ancora più esteso e devastante?
Diversi anni fa, in un saggio sull’etica del compromesso Avishai Margalit, filosofo israeliano, diede una sua lettura sul patto sottoscritto a Monaco nel ‘38, la concessione dei Sudeti alla Germania nazista nell’idea che quel cedimento avrebbe placato le pulsioni aggressive del Terzo Reich.
Margalit definiva quell’accordo “sordido”, nel senso di immorale. Ma più che per il merito, per l’interlocutore scelto. In altri termini, se l’accordo fosse stato sottoscritto, per dire, con l’ultimo ministro degli esteri della Repubblica di Weimar, esso sarebbe passato alla storia come un drammatico errore politico.
Ciò che lo ha reso immorale era la decisione di riconoscere come interlocutore il capo del nazismo quando già si sapeva chi egli era e cosa quel cedimento avrebbe determinato. Perché scomodare un episodio così lontano?
La risposta è perché, a modo suo, si lega a quel titolo di giornale: Kiev, la nostra Normandia.
E il legame vive in questo: se noi oggi costruiamo una corrispondenza tra la difesa legittima e sacrosanta dell’Ucraina invasa allo sbarco alleato in Europa, teorizzando sul piano politico, storico e militare una analoga corrispondenza tra il male assoluto del nazismo e il potenziale male assoluto della dittatura di Putin, dobbiamo necessariamente trarne le conseguenze.
In altre parole, sosteniamo la tesi di una Russia protesa, dopo l’Ucraina, a proseguire il suo disegno imperialista di abbattimento delle democrazie liberali?
Ma se di questo si tratta, cioè se sposiamo questa tesi, allora coerenza vorrebbe l’intervento immediato della Nato così da stroncare il pericolo di un nuovo nazismo anche al costo di un dispendio spaventoso di vite umane.
Chiedo: possiamo immaginare, anche solo immaginare, una tale apocalisse? E possiamo farlo in un’era atomica dove armi di distruzione potrebbero condurre a un collasso della civiltà umana?
Per il poco che vale, la mia risposta è che solo ipotizzare uno scenario simile sia un atto di irresponsabile follia.
E che per questo la vera prova dinanzi alle élite politiche (e militari) dell’Europa di ora e dell’Occidente sia affiancare al sostegno della resistenza di Kiev un immediato piano diplomatico e strategico teso a fermare quella tragedia costruendo le condizioni possibili di un compromesso capace di preservare il futuro dell’Ucraina come nazione libera e sovrana.
All’obiezione, in questi mesi mesi reiterata all’infinito, «ma è Putin che non vuole trattare», la sola replica è che per avviare una trattativa ci deve essere chi determina le premesse, e successivamente le condizioni, perché quel confronto possa aprirsi.
Quel soggetto storico e politico non può che essere l’Europa, ed è per questo che definire oggi Kiev, «la nostra Normandia», può forse soddisfare gli animi più irriducibili nell’idea che la Russia vada sconfitta sul campo di battaglia, e a qualunque costo.
Ma non può certo impedire che la guerra vissuta in questi due anni e più diventi la nuova nuova pagina di quella tragedia – la distruzione fisica e morale dell’Europa – che ottant’anni fa menti coraggiose e illuminate ritennero di dover archiviare nei sepolcri della storia.
Saperlo e dirlo non basta di certo, ma forse aiuta a interrare un seme di speranza.
© Riproduzione riservata