Con l’armistizio si aprì un periodo tragico per i soldati italiani, che dovettero decidere se continuare la guerra al fianco della Germania o essere deportati nei lager
- Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 si aprì un periodo tragico per i soldati italiani, che dovettero decidere se continuare la guerra al fianco della Germania o essere deportati nei lager
- 650mila di loro scelsero l’internamento: una scelta spesso motivata anche da ragioni politiche e che costituì quindi una forma di resistenza al nazifascismo
- Gli internati militari sono vittime del nazismo le cui storie sono rimaste nell’oblio: ma tanti dei loro parenti ancora, dopo 77 anni, cercano di scoprire quale sia stata la fine fatta dai propri cari
L’8 settembre 1943 viene reso pubblico l’armistizio firmato cinque giorni prima tra l’Italia e gli angloamericani. L’illusione della pace è effimera mentre si apre un periodo tragico per i soldati italiani che lasciati senza ordini e senza direttive precise vengono posti di fronte al dilemma se continuare la guerra a fianco della Germania nazista o essere deportati nei lager.
A 77 anni di distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale vi è la necessità di rafforzare la memoria storica di quel periodo per non disperdere i valori e le scelte che spinsero tanti giovani ad opporsi alle due dittature, dando vita a una lotta resistenziale, che seppur nella diversità delle loro azioni, contribuì alla disfatta del nazifascismo in Italia e in Europa.
Stiamo parlando degli Imi, gli internati militari italiani, fatti prigionieri dai nazisti perché non accettarono l’arruolamento nell’esercito nazifascista e vennero quindi deportati nei lager come traditori.
Testimoni
Ascoltare i testimoni, trascrivere diari e lettere, raccontare le loro vicende nei campi di concentramento del Terzo Reich. Un lavoro importante che da qualche anno fa emergere una storia nascosta, per molto tempo rimasta nell’oblio della memoria italiana ed europea.
Il lavoro di ricostruzione certosina delle traiettorie della deportazione, dei lager dove furono rinchiusi e delle aziende che li hanno utilizzati come schiavi di Hitler sta emergendo grazie in particolare allo studio delle testimonianze dei deportati. Studio che si basa ovviamente ora su diari, memoriali, lettere, fonti d’archivio oppure interviste registrate anni fa dal momento che oramai pochissimi sono gli Internati ancora in vita.
Conosciamo attraverso il diario di mamma Teresa (parente di Silvia Pascale) il dolore e la disperazione della morte di un figlio in terra straniera, morto di malattia e di fame lavorando in una fabbrica del Terzo Reich. Il desiderio di una madre di poter vedere, una volta terminata la guerra, la tomba del figlio. Il coraggio di una madre che parte dall’Italia per cercare la sua tomba.
Seguendo il racconto di nonna abbiamo scoperto però non solo il dolore, ma il coraggio di una madre e la riconciliazione con il passato: nessuna parola di odio è mai uscita dalla sua bocca. Scriveva così Teresa: «Dire che io avrei dovuto odiare i tedeschi più di ogni altra cosa al mondo; invece, a vedere come era tenuta e rispettata la cara tomba di mio figlio, e a vedermi trattata così umanamente, io sentivo di attaccarmi sempre più a tutta quella cara gente. Per tutto questo io non sentirò mai di odiarli e ripeterò sempre questa frase: “La guerra è guerra, i buoni e i cattivi esistono in tutte le nazioni, e fra i tanti, è toccata pure al mio caro Anadage, la triste sorte di morire di stenti”. Chi leggerà queste righe anche quando io non esisterò più, sappia che ho provato più soddisfazione in una nazione, che in certo senso avrei anche dovuto odiare».
Attraverso un diario, come quello di Elio Materassi, si può ricostruire la storia della sua vita militare e della deportazione dopo l’armistizio. Si possono conoscere le località di internamento, la tipologia di lavoro forzato, le angherie e le violenze subite.
Ma si possono leggere anche le motivazioni della scelta di dire no al nazifascismo, scelta esplicata più volte tra le pagine dei suoi appunti che si concludono con un messaggio di speranza: «Al termine di questo scritto, mi sia consentito di esprimere il mio augurio, a tutti i giovani d’Italia e del mondo intero, di vivere sempre in pace, senza più guerre di nessuna sorta, e di non aver mai la sventura di correre tanti rischi e sopportare tante sofferenze, come quelle che abbiamo sopportate noi, per venti lunghi mesi, nei lager nazisti».
Storie dimenticate
È un lavoro complicato, perché la testimonianza necessita anche di un confronto con la documentazione storica, e l’assenza di archivi specifici rende difficile tutto questo.
Riceviamo tantissime richieste da parenti che ancora adesso, nel 2022, non sanno dove è la tomba del proprio familiare e curiamo le ricerche per ritrovare il luogo di sepoltura o i documenti della deportazione. Un lavoro enorme e quotidiano, che diventa emozione pura quando riusciamo a rispondere alle loro domande e a colmare quel vuoto di decine d’anni.
Storie rimaste per decenni nell’oblio per tante motivazioni politiche, familiari, personali.
L’obiettivo è quello di dare dignità a queste vittime del nazifascismo, quella dignità che fu loro negata sia nei campi di concentramento che al loro ritorno, quel silenzio che avvolse la loro storia per molti lunghi anni.
Il fenomeno rimane straordinariamente difficile da cogliere e da generalizzare e l’argomento non è stato ancora completamente analizzato. Le ragioni principali sono l’enormità in termini numerici e l’eterogeneità degli Imi.
Dai documenti emergono notevoli differenze per quanto riguarda il trattamento giornaliero, il nutrimento e la possibile sopravvivenza che dipendeva dall’assegnazione lavorativa: in agricoltura o nell’industria, direttamente per le SS o per la Wehrmacht, in un in un’impresa privata – grande o piccola – nelle costruzioni, nell’estrazione mineraria o in una catena di montaggio.
Certamente le condizioni di vita nei campi di concentramento erano segnate da fame, maltrattamenti, malattie e bombardamenti. Inoltre, il clima di propaganda nei confronti degli italiani era feroce: venivano chiamati “traditori”, “carogne” e “porci badogliani”.
Dobbiamo sottolineare bene che la scelta che fecero circa 650mila italiani, ragazzi giovani e spesso con pochi strumenti culturali, è la prima forma di Resistenza. È anche grazie a loro che il nazifascismo è crollato.
La scelta degli internati è stata sicuramente sofferta e cosciente: rimanendo nei lager, restava l’amara consapevolezza che con una semplice firma si sarebbe potuto evitare, oltre alle sofferenze morali e fisiche, il prevedibile rischio di soccombere. Circa 50mila internati pagarono con la vita il loro rifiuto ad aderire al nazifascismo.
Altre resistenze
Per troppi decenni abbiamo pensato e celebrato il 25 aprile come il ricordo della Liberazione grazie alla lotta armata partigiana la cui importanza venne fin da subito riconosciuta con un decreto luogotenenziale n° 350 del 3 maggio 1945.
Così non fu per altre tipologie resistenziali che videro la presenza di una larga parte di persone accomunate da ideali antifascisti in quella che noi riteniamo essere stata una Resistenza di popolo: donne, uomini, giovani, anziani che nella diversità del loro contributo furono “attori” di impegno e di dedizione sacrificando in molti casi la propria vita.
Dalle testimonianze degli Imi emerge in particolare il lavoro forzato a cui furono sottoposti i nostri soldati catturati dopo l’8 settembre ’43 e confrontandole con i documenti ritrovati emerge che l’annientamento anche per loro avveniva attraverso il lavoro coatto: fame, freddo, malattie, violenze e interminabili ore di lavoro in condizioni disumane li deprivarono di dignità, li soggiogarono psicologicamente e per coloro che tornarono restarono traumi indelebili che ne condizionarono la vita.
Sono testimonianze della Resistenza di chi ebbe la forza di sopravvivere alle violenze, alle sofferenze e alla morte all’interno dei campi di concentramento, documenti importanti delle orrende azioni dei criminali nazisti.
Proprio per questo motivo stiamo coordinando la parte italiana del progetto transnazionale per ragazzi Onboarding Memories, dell’Europäische Akademie di Berlino, che ha come focus il lavoro coatto: le “voci” degli Imi faranno parte di un museo digitale della Memoria in 3d, che da novembre sarà accessibile a tutti.
Ogni giorno è necessario coltivare la conoscenza di quello che è successo affinché rimanga vivo il valore della memoria, del ricordo e della riconciliazione.
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