Di fronte alle tendenze autoritarie nella cultura della destra di governo, quelle iniziative capaci di costruire e valorizzare la pluralità di interessi sono da salutare come manifestazioni di passione democratica resistente e vitale. Ma rappresentano pure un campanello di allarme
Alla riapertura dei giochi parlamentari, le chiacchiere estive sul diritto di cittadinanza ai figli di stranieri nati e cresciuti in Italia si sono rivelate per quello che erano: chiacchiere. Il no di Forza Italia alle proposte delle opposizioni sullo Ius Scholae, che Antonio Tajani fino a pochi giorni fa definiva un «diritto sacrosanto», ha palesato la menzogna dietro l’apparente incrinatura nel fronte reazionario. Ragioni di alleanze, convenienze, strategie. Che marcano ancora una volta la distanza tra una politica che arranca, cammina sul posto o procede all’indietro sul terreno dei diritti, e le grandi questioni di giustizia a cui parti del paese chiedono risposte.
Quando la strada è bloccata, spesso non resta che aggirare l’ostacolo. Ed è quello che la società civile si appresta a fare, ancora una volta, con il referendum promosso dai giovani italiani senza cittadinanza insieme a una rete di associazioni e partiti di opposizione, che mira (almeno) a ridurre a 5 – dai 10 oggi richiesti – gli anni di legale residenza necessari per essere riconosciuti come cittadini e cittadine. Ancora una volta, davanti alla sordità e alla chiusura autoreferenziale delle forze di governo, alla debolezza di un Parlamento esautorato delle sue funzioni, alla fragilità degli strumenti di intermediazione tra cittadini ed istituzioni, è al principale istituto di democrazia diretta previsto dalla nostra Costituzione che si affida la speranza.
Quelli che abbiamo alle spalle sono stati mesi di fioritura di iniziative e raccolte di firme: contro l’autonomia differenziata che spacca il paese; contro il Jobs Act e le norme che generano precarietà e lavoro povero; contro il Rosatellum per una legge elettorale che garantisca il pluralismo e la scelta dei rappresentanti. Un segnale chiaro del desiderio di partecipazione che vive nel paese, nonostante il restringimento degli spazi democratici e di partecipazione. E che risalta nel contrasto con un governo che muove in direzione contraria: per ridurre, con il progetto del “premierato”, il pluralismo politico e l’autonomia del legislativo.
Si tratta di due esiti contrapposti generati dalla stessa crisi della democrazia rappresentativa. Da una parte, una classe politica che – a più riprese negli ultimi decenni, e in modo pronunciato con l’attuale tentativo di riforma costituzionale – indica come unica risposta alla debolezza delle istituzioni il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e del capo del governo, marginalizzando il ruolo delle opposizioni e del dissenso organizzato. Dall’altra, la rinnovata fortuna degli strumenti di democrazia diretta, in un contesto di crescente sfiducia nei partiti e nelle istituzioni.
I non rappresentati
È ciò che accade, spiega la filosofa Valentina Pazé, quando cresce il popolo dei «non rappresentati»: la «popolazione eccedente» che la politica rimuove e dimentica (I non rappresentati, edizioni GruppoAbele). Non rappresentati sono gli stranieri, «novelli meteci privi di cittadinanza», ma anche le minoranze politiche sacrificate sull’altare di leggi elettorali orientate dal solo obiettivo della «governabilità». E poi «gli arrabbiati, i delusi, i disillusi, che hanno smesso di partecipare perché dalla democrazia non si attendono più nulla» – in particolare, dagli strumenti della rappresentanza democratica.
Per gli «esclusi di diritto», gli «esclusi di fatto», gli «autoesclusi», gli strumenti di partecipazione diretta aprono orizzonti di possibilità e offrono occasioni di partecipazione. La straordinaria rapidità con cui alcuni quesiti hanno raggiunto le firme necessarie è nei fatti un segnale in controtendenza rispetto alla rappresentazione di apatia del corpo sociale che l’astensionismo crescente tende a suggerire.
In modo specifico, di fronte alle tendenze autoritarie che allignano nella cultura della destra di governo, iniziative capaci di costruire forme di opposizione nella società e di valorizzare la pluralità di interessi, bisogni e voci sacrificata nelle dinamiche dei giochi parlamentari sono da salutare come manifestazioni di una passione democratica resistente e vitale.
Altrettanto, però, rappresentano un campanello di allarme a cui partiti, benché impegnati a loro volta nella raccolta firme, sono tenuti a prestare attenzione. Perché, se la democrazia rappresentativa non può fare a meno dei corpi intermedi, la resistenza non può attestarsi sull’appello alla mobilitazione popolare in via diretta. Ai partiti e al lavoro dei rappresentanti resta il compito di ridurre la distanza tra corpo politico e corpo sociale.
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