«Siamo figlie e figli dell’Italia, un paese in cui viviamo da anni e a cui contribuiamo». Così le organizzazioni promotrici del referendum abrogativo, depositato ieri in Cassazione, lanciano la campagna che mira a diminuire a cinque gli anni di residenza legale necessari per accedere alla cittadinanza per naturalizzazione. La legge del 1992 richiede che il cittadino straniero di un paese fuori dall’Unione europea sia residente in Italia da 10 anni, mentre ai cittadini comunitari viene chiesto un periodo di quattro anni. «I tempi sono lunghissimi», spiega di fronte alla Cassazione Simohamed Kaabour di Idem Network, consigliere comunale a Genova e tra i promotori dell’iniziativa, «ed è necessario che l’Italia si adegui alla maggior parte dei paesi europei».

Questo referendum è un primo passo, che parte dal basso, di un percorso di riforma della legge sulla cittadinanza, che quest’anno compie 32 anni e non tiene «conto degli immensi cambiamenti» sociali che sono avvenuti nel nostro paese, dice Luigi Manconi, ex senatore ed ex presidente della commissione Diritti umani del Senato, tra i promotori di questa iniziativa. Nel quesito referendario si chiede dunque di tornare alla disciplina che esisteva prima del 1992. Votando sì e abrogando parte dell’articolo 9, che prevede il termine dei 10 anni, potrebbero fare richiesta di cittadinanza circa 2,3 milioni di persone. Un bacino che si amplia per chi ha figli minori conviventi, che la acquisirebbero automaticamente qualora i genitori ne divenissero titolari.

Oltre a Manconi, a promuovere l’iniziativa le organizzazioni “Italiani senza cittadinanza”, Conngi, Idem Network, Libera, A Buon Diritto, Società della ragione, partiti come + Europa, Possibile, Psi, Radicali italiani e personalità politiche e istituzionali come Mauro Palma, Luigi Ciotti, Emma Bonino, Teresa Bellanova e Pippo Civati. Dopo i tempi tecnici per la pubblicazione del referendum in Gazzetta Ufficiale, partirà la raccolta delle 500mila firme necessarie. Il Partito democratico ha già assicurato che firmerà a sostegno della campagna. «Questo referendum rappresenta una mediazione possibile» tra le varie posizioni politiche, spiega Manconi, mentre lo Ius soli, da lui proposto e difeso con uno sciopero della fame nel 2017, non è stato approvato al termine della scorsa legislatura, «per l’opposizione brutale della destra e per la pavidità di gran parte della sinistra».

Perché è importante promuovere questo referendum?

La legge sulla cittadinanza è vecchia di 32 anni, appartiene a un’epoca in cui la presenza straniera in Italia era limitata a poche centinaia di migliaia di persone. Se non sbaglio, nel 1992, data a cui risale l’approvazione della legge, in Italia gli stranieri erano circa 400mila persone. Nel frattempo la presenza è più che decuplicata.

La legge deve tener conto degli immensi cambiamenti che questo ha comportato. Inoltre, quella normativa aveva un’ispirazione di tipo restrittivo, selettivo, mirava a contenere e limitare, a ridurre. Invece quanto è successo nel frattempo in Italia deve indurre proprio ad aprire e a tener conto che la società italiana, la sua crisi demografica acutissima e il mercato del lavoro pretendono che la possibilità di accedere alla cittadinanza – da parte di chi vive, studia, lavora in Italia – sia incentivata e non scoraggiata.

In 32 anni non si è riusciti a riformare questa legge. Perché?

Sono tante le ragioni. La prima, a mio parere, sta probabilmente in quel termine così frequentemente evocato, e che personalmente ritengo sciocco, cioè il termine “divisivo”. Ritengo che nella sfera pubblica, nella sede politica capitino sempre temi divisivi, cioè temi che mettono in discussione l’impianto valoriale e l’ispirazione culturale di diversi soggetti. La politica è per definizione quell’arte che dovrebbe trovare il punto di mediazione, lo spazio per il compromesso.

Invece la parola “divisivo” è diventata nella percezione di tanti, nelle parole che si sprecano, una sorta di intimidazione, un tabù intoccabile, qualcosa che suscita allarme invece che sollecitare riflessioni e confronto. Non c’è dubbio che sul tema dell’immigrazione e della cittadinanza le posizioni possano essere e sono molto differenziate. Ma appunto la politica deve intervenire per trovare una mediazione, equilibrata ed equa. Penso che il referendum di cui stiamo parlando rappresenti questa mediazione possibile.

Bisogna oltretutto tenere conto che qualora l’Italia assumesse tale posizione, cioè ridurre alla metà il tempo di attesa per poter accedere alla cittadinanza, si farebbe né più né meno che quello che ha fatto nei mesi scorsi la Germania, pur essendo la situazione della Germania oggi afflitta da disoccupazione reale e minacciata, da allarmi sociali, da crisi in campo economico, e non solo, da insorgenza di razzismi e fascismi. Ciononostante una classe politica responsabile ha voluto portare a cinque anni il tempo di attesa per poter accedere al diritto di cittadinanza.

Quale paradigma di cittadinanza esiste oggi in Italia e in che direzione bisognerebbe andare?

Bisogna trovare un punto di mediazione che consenta la formazione di una maggioranza parlamentare che approvi un disegno di legge equo ed equilibrato. Quello che chiamiamo Ius scholae o Ius culturae è oggi una concreta possibilità. Nel 2017 portammo avanti, direi fino allo stremo, anche perché sostenuta da uno sciopero della fame, una campagna per lo Ius soli. Non ebbe un esito positivo per l’opposizione brutale della destra e per la pavidità della sinistra. Bisogna riprovarci.

Qual è il compito della sinistra?

Far sì che la legge sulla cittadinanza abbia un impianto non dettato dagli allarmi sociali e dal panico morale, ma dettato da criteri di intelligenza e razionalità. Questi criteri possono essere riassunti in una formula: l’Italia ha bisogno di stranieri, e dunque di stranieri titolari di diritti, e gli stranieri hanno bisogno dell’Italia. In questa reciprocità, nello scoprirsi l’uno necessario all’altro, la sinistra può giocare un compito che è quello di perseguire la tutela dei diritti universali della persona.

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