Sono uomo di mondo, ho frequentato la politica e so che essa contempla compromessi. Non mi sfugge la circostanza che la governance della Ue si regge su logiche complesse. In particolare essa deve coniugare gli orientamenti delle famiglie politiche con gli interessi degli Stati membri.

Lo stiamo osservando in questi giorni nel travagliato varo della Commissione presieduta da Ursula von der Leyen al suo secondo mandato. Alla fine sembra che essa si avvii al suo insediamento e – lo comprendo – il fosco quadro internazionale nel quale si inscrivono l’escalation bellica e l’elezione di Donald Trump suggeriscono che vi fossero buone ragioni per non frapporvi indugi.

Politica ammaccata

Posso tuttavia confessare un sentimento e una preoccupazione? Il sentimento: non è stato un bel vedere, la politica europea ne esce un po’ ammaccata agli occhi dei cittadini. La preoccupazione: la stessa Commissione pagherà un prezzo alle contraddizioni che hanno segnato il suo varo.

Nell’ordine, dal grande al piccolo: penso alla doppia, contraddittoria maggioranza, quella europeista che ha votato il bis a von der Leyen a luglio e quella che la voterà a giorni comprensiva di destre sovraniste. È facile prevedere che, nel quotidiano esercizio del suo mandato, tali contraddizioni puntualmente riaffioreranno e ne intralceranno il passo.

Penso alla principale famiglia politica europea, i popolari, che fanno la andreottiana politica dei due forni e immeschiniscono la questione per regolare conti tutti interni alla politica spagnola; penso a Ursula la cui, diciamo così, versatilità, il cui tatticismo combinatorio confina con il disinvolto funambolismo; penso alla nostra premier e al suo partito a luglio contro (per tetragona convinzione, ci disse) e ora a favore; penso al nostro governo diviso allora e diviso oggi (con la Lega che si oppone); penso alla stessa opposizione divisa con il Pd dapprima solidale con la più che giustificata resistenza dei colleghi socialisti decisi a non avallare la contraddizione della doppia maggioranza e poi risoltisi a votare il vicepresidente meloniano della Commissione, Raffaele Fitto, con l’argomento risibile del “meno peggio perché di scuola democristiana”, come se le ascrizioni politiche fossero un dettaglio. Per inciso, un ministro, Fitto, cui il Pd imputa una cattiva gestione del Pnrr e che dovrà occuparsene in sede europea.

Ci si abitua a tutto

Del resto, lo si era inteso subito, la delegazione Pd era divisa al riguardo: essa paga la disomogeneità politica delle candidature Pd all’Europarlamento. Infine, per chiudere con le nostre miserie, un commissario italiano il cui personale percorso politico non brilla per linearità essendo passato dall’europeismo democristiano (oggi rinverdito) a un partito sovranista postmissino (oggi esorcizzato).

Sembra che vada bene così, ci si abitua a tutto. Solo mi contenterei che ci risparmiassimo peana del tipo: ha vinto l’Italia, ha vinto l’Europa, ha vinto la politica.

Almeno la politica non ha vinto di sicuro. Perché la Commissione sconta una composizione e un profilo politico massimamente contraddittori e – segnalo – nell’architettura della Ue proprio la Commissione dovrebbe essere semmai l’organo più politico. Per i veri europeisti non un motivo di soddisfazione.

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