La Commissione europea più a destra dei tempi recenti, guidata da una presidente più accentratrice che mai, otterrà la fiducia dell’Europarlamento in seduta plenaria mercoledì prossimo a mezzogiorno. Avendo ottenuto la vicepresidenza esecutiva per Raffaele Fitto grazie alla protezione di Ursula von der Leyen e della sua famiglia politica popolare, Fratelli d’Italia voterà a favore.

Grazie alla finestra di opportunità favorevole – per la vittoria di Donald TrumpGiorgia Meloni si prepara a far valere il proprio ruolo di interpolazione a livelli mai visti prima. Se finora si era presentata come il ponte tra il Ppe e la compagine delle destre estreme, adesso giocherà anche la parte del tramite con la Casa Bianca. Ma finora questo ruolo non ha comportato alcuna centralità dell’Italia sui dossier chiave, mentre per Trump la premier italiana sarà l’aggancio ideale per frammentare quel che resta dell’integrazione europea.

L’assimilazione di FdI

Sembrano lontani i tempi in cui Ursula von der Leyen, in campagna elettorale per prendersi un bis da presidente della Commissione, gettava scandalo nei corridoi brussellesi dichiarando in diretta televisiva che Meloni è «un’europeista» con la quale vale la pena di cooperare. Von der Leyen e Meloni continuano a discutere più che mai, ovviamente; la differenza è che oggi a nessuno è più concesso di stupirsene.

Nella notte agitata di mercoledì, mentre i popolari umiliavano fino all’ultimo i socialisti marcando le loro distanze da Teresa Ribera, sia il gruppo europeo al quale afferisce il Pd sia la formazione liberale hanno dato il loro beneplacito all’ingresso di Fitto in Commissione. Lo hanno fatto in nome di una «stabilità» e di un «accordo» (citando S&D) ai quali i popolari europei dal canto loro non si sentono affatto vincolati.

Se mai si può trarre una lezione dalla diseducativa parentesi delle audizioni congelate – in conclusione delle quali, come era prevedibile e previsto, tutti i commissari designati hanno ottenuto il benestare – la lezione sta nel grado di violenza negoziale con cui Manfred Weber ha voluto imporre lo slittamento a destra. Non solo alle audizioni si è fatto carico di far passare sia la vicepresidenza di Fitto sia il commissario orbaniano, ma provocando ripetutamente i socialisti ha voluto affermarsi come arbitro incontrastato: si riserverà di appoggiarsi alle destre estreme (con Meloni come tramite prediletto) tutte le volte che vuole, e degraderà i progressisti a junior partner quando invece servirà il loro appoggio.

Nel 2021 Meloni e Fitto hanno sabotato il piano del gruppone delle destre estreme, ottenendo per questo un credito col Ppe e l’integrazione nelle dinamiche di potere; Weber, che già all’epoca ha normalizzato la formazione postfascista di Meloni (e lo rivendica pure come una sua intuizione di successo), sta ora normalizzando l’imprescindibilità meloniana nelle dinamiche di potere. E se ne accorgono tutti, in tutte le capitali: Ohne Italien geht’s nicht: Meloni hat ihre Macht in Brüssel etabliert. «Non si può fare a meno dell’Italia: Meloni consolida il suo potere a Bruxelles», titolava questo giovedì mattina l’analisi di punta di Der Standard, quotidiano di riferimento dei progressisti in Austria.

Disintegrazione europea

«Grazie al lavoro di Giorgia, l’Italia torna centrale in Europa! Il nostro Raffaele saprà rappresentare al meglio gli interessi dell’Italia in Europa!», ha scritto Arianna Meloni in una dichiarazione a suo modo rivelatrice. I commissari europei sono tenuti ad agire nell’interesse dell’Ue, non di un singolo paese, e in teoria devono garantire la propria indipendenza (dunque quel «nostro» Raffaele già stona). Ma era chiaro dall’inizio quale fosse il ruolo che Meloni (Giorgia) attribuiva all’incarico: Fitto è da sempre il suo luogotenente in Ue; a Strasburgo ha stabilito il canale prima col Ppe e poi con von der Leyen, a Roma ha garantito una compatibilità tra i piani di governo e i piani di palazzo Berlaymont; a Bruxelles dovrà fare da parafulmine e da facilitatore per Meloni. «Guardi di più all’Italia», rimproverava la premier a Paolo Gentiloni, smascherando così il suo modo di intendere il ruolo dei commissari.

Ma tutto ciò per fare cosa? Finora von der Leyen ha assecondato Meloni sul versante della propaganda – come si è visto in tema migranti – ma la premier è rimasta ininfluente sui dossier pesanti: dalla proroga agli aiuti di stato alla riforma del Patto di stabilità, Roma ha subìto il peso di Berlino, Parigi e Bruxelles. Al di là del ruolo simbolico della vicepresidenza, le stesse deleghe attribuite a Fitto (Coesione e riforme) finora non sono state considerate pesanti (la predecessora era una portoghese).

Nei corridoi di Bruxelles si vocifera pure che von der Leyen potrebbe strappare a Fitto centinaia di funzionari preposti alle riforme, per mantenere agganciato a sé il bilancio. Servirà tutta l’abilità democristiana del meloniano: già in audizione ha esibito le arti da tessitore, inoltre – come ammette – non ama esibire e dichiarare; sono buone carte per restare nelle grazie dell’accentratrice von der Leyen. Aiuterà anche il fatto che Trump veda in Meloni la principale interlocutrice. Ma, anche qui, per fare cosa?

Al presidente designato non conviene negoziare con un’Europa unita, ma frammentarla in accordi bilaterali: il canale con l’Italia (già aperta a Musk) non gli servirà certo per favorire l’integrazione europea, ma semmai la disintegrazione. Con la Germania più debole che mai e la Francia appesa a Marine Le Pen, il presidente argentino Javier Milei vuole una «alleanza di nazioni guidata da Usa, Argentina, Italia e Israele»: Meloni è la miglior candidata a prendere in prestito la mileiana sega elettrica. Solo che nel caso dell’Ue la sega non taglierà i ministeri, ma il progetto comune.

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