L’Unione europea è una costruzione complessa fatta da (di) ventisette stati nazionali, «obsoleti, ma ostinati» (copyright quel grande studioso che fu Stanley Hoffmann), con interessi diversi, talvolta divergenti, che, anche se qualche capo di governo se lo dimentica presuntuosamente, hanno di loro stessa volontà rinunciato a parti della loro sovranità nazionale.

Non l’hanno perduta quella sovranità. L’hanno spostata a livello europeo e la condividono con tutta la necessità di procedere ad accordi su quali materie, con quali modalità, in quali tempi esercitarla.

Nel corso del tempo l’Unione europea è cresciuta costantemente, ha aumentato le proprie competenze, ha allargato la sua membership. Non sono pochi gli stati attualmente candidati che riconoscono o quantomeno sperano che il loro ingresso nella Ue porterà loro maggiore sicurezza, maggiore prosperità (è sempre stato così), maggiore libertà. Già, proprio così, infatti, la Ue è da tempo il più grande spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo.

C’è molto da fare

Come tutti i sistemi politici democratici, l’Unione europea deve affrontare sfide e risolvere problemi. Ha superato la crisi economica del 2008-2009 che veniva da oltreoceano. Mettendo insieme risorse e saperi ha anche debellato il Covid venuto dalla Cina.

Oggi la sfida più difficile è quella epocale della migrazione di milioni di persone dall’Africa, dal Medio oriente, dall’Asia, che fanno un grande omaggio all’Europa. Qui vogliono venire a vivere e lavorare, qui vogliono fare crescere i loro figli, qui sanno di trovare opportunità. Certo, come il Rapporto di Enrico Letta sul futuro del Mercato unico e il Rapporto Draghi sulla competitività hanno convincentemente sottolineato c’è molto da fare.

Non esiste un vero e proprio governo europeo. Il ruolo viene svolto congiuntamente, ma non senza tensioni, spesso anche produttive, dal Consiglio dei capi di governo e dalla Commissione europea. Faremmo molto male, però, a sottovalutare quanto possono fare ed effettivamente fanno i parlamentari europei. Oggi (e domani e dopodomani), il giorno dopo la presentazione della nuova Commissione, è particolarmente opportuno interrogarsi sulla sua composizione e sulle sue capacità di esprimere la guida del cambiamento.

I successi di von der Leyen

La domanda chi ha vinto/chi ha perso con la nomina dei singoli commissari mi pare riduttiva e inadeguata a rendere conto di quel che è successo e a riflettere sul futuro. Certamente, però, Ursula von der Leyen può vantare una pluralità di successi. Ha ottenuto di essere rinominata. È riuscita a conseguire un notevole riequilibrio di genere nella composizione della squadra. Senza cedere alle malposte rivendicazioni di Giorgia Meloni, ha abilmente smussato le tensioni con l’Italia, “grande paese fondatore, etc etc”, al cui governo, però, c’è chi non sa e non può celare amicizie e pulsioni sovraniste.

Adesso, da un lato, toccherà al commissario italiano Raffaele Fitto fugare alcune di quelle pulsioni nelle esigenti audizioni parlamentari. Dall’altro, la stessa von der Leyen dovrà formulare sintesi molto più avanzate di quelle che non ha saputo produrre nel suo primo mandato.

Se i politici veri hanno lo sguardo lungo, alla presidente si presenta la straordinaria opportunità di cinque anni per effettuare le svolte ambientali, di competitività, di politica estera e difesa e di nuove procedure decisionali (eliminazione dell’unanimità) in grado di proiettare l’Unione a uno stadio di integrazione ancora più elevato. I commentatori di sventure volano basso e vedono poco e corto. Letta e Draghi hanno indicato la strada dell’approfondimento. Von der Leyen hic salta.

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