Confesso che il caso Ermini (nominato al vertice del gruppo Spinelli) non mi ha sorpreso. Chiarissime le ragioni processuali, persino dichiarate, di favorire la revoca degli arresti dell’imprenditore accusato di essere il “grande corruttore” e di lisciare il pelo ai magistrati.

Ma altrettanto evidente la ragione politica: coinvolgere un esponente del Pd per accreditare l’idea che destra e sinistra pari sono, nel mentre il campo largo si propone come decisa alternativa. Neppure mi ha sorpreso che Ermini faccia finta di non avere inteso il carattere strumentale della sua nomina e l’uso politico che ne avrebbe fatto la destra. Fedelissimo di Renzi, a lui deve la nomina al vertice del Csm.

Nomina sommamente inopportuna, essendo stato sino a un minuto prima parlamentare e responsabile giustizia del Pd. Fu imbarazzante quando fu chiamato a gestire i traumatici contraccolpi sul Csm del caso Palamara e delle manovre politiche – vedi il caso dell’hotel Champagne nel quale politici altrettanto renziani, Lotti e Ferri, brigavano per le nomine degli uffici direttivi della magistratura – figlie dello stesso metodo che lo aveva portato alla vicepresidenza del Csm.

A suo modo, non aveva torto Renzi a imputargli ingratitudine quando egli gli girò le spalle. L’uomo quello è, paradossalmente proprio in coerenza con la “scuola renziana”, contraddistinta dalla indistinzione tra politica, carriera e business.

E fa sorridere che egli (spero non il Pd) possa aver pensato di cavarsela con il ridicolo istituto dell’autosospensione dal partito. Cioè nulla di nulla, una presa in giro. O con la mera fuoriuscita dalla direzione Pd. E ci mancherebbe: si sta prestando a pregiudicarne le chance di conquista della Liguria.

La sfida di Schlein

Ma il problema più serio investe il profilo del Pd. Forse la più difficile e incompiuta delle sfide cui è chiamata Schlein: l’affrancamento dalla nomea di “partito dell’establishment” (compreso quello della magistratura), la determinazione nel mettere a tema il conflitto di interessi (che non riguarda solo la destra), la condizione di ostaggio di un ceto politico obeso che concepisce la politica come mestiere o come viatico a posizioni di potere economico e professionale.

Un cattivo esempio che, dall’alto di due ex premier Pd pur tanto diversi, è poi sceso per li rami. Insomma una concezione e una pratica della politica che contraddicono manifestamente il messaggio che vorrebbe trasmettere lo sguardo di Berlinguer stampato sulla tessera del nuovo Pd. Il quale poneva la questione morale come questione politica, e, segnatamente, l’occupazione di società e istituzioni da parte dei partiti. Con ciò che ne consegue.

Tanto più se si considera il tratto caratteristico del caso ligure. Il seguente (è la linea di difesa di Toti): la asserita coincidenza sistemica tra interesse pubblico affidato alla politica e interesse di potenti gruppi economico-imprenditoriali, che escluderebbe ogni illecito.

Una pretesa forse esimente sul piano giudiziario, ma un’aggravante politica; la cancellazione di ogni “zona di rispetto” tra responsabilità pubbliche e affari privati, nonché un vulnus all’autonomia e a un ben inteso primato della politica.

Anche al fine di ripristinare una sana, libera concorrenza tra privati laddove ha regnato una «oligarchia predatoria» (copyright di Orlando).

Ha ragione chi sostiene che, nel caso ligure, al di là dell’aspetto giudiziario, l’alternativa, genuinamente politica e di visione, deve essere la più netta e radicale.

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