La guerra che si prepara determina un salto di qualità nel conflitto che potrebbe rompere gli equilibri dell’area. L’affondo di Bibi può avvenire solo in cambio di un reale indebolimento dell’Iran
L’attesa della guerra, quella grande, stinge alla gola molti, in Medio Oriente e fuori. Tutti attendono l’ora X che, per il segretario di stato Usa Antony Blinken, dovrebbe scattare nelle prossime ore.
Situazione che può precipitare la regione in un conflitto esteso o, come ci si augura nelle cancellerie, finire in un duro scambio di colpi che, a sua volta, inneschi la consueta, limitata, reazione di rappresaglia: il che consentirebbe ai contendenti di mantenere la faccia e ricominciare da capo. Come niente fosse avvenuto. Come è accaduto in questi mesi. Ma per quanto la guerra possa essere messa in forma, regolata, piegata al realistico peso degli imperativi strategici, la sensazione è che, questa volta, qualcosa si sia rotto. E che non sia semplice rimettere al loro posto i complicati tasselli del mosaico mediorientale.
Dove sono in gioco molte cose: la capacità di deterrenza dei principali, e autentici, protagonisti del conflitto, il prestigio, l’onore, la capacità di tenere e rafforzare le alleanze, la soluzione di nodi intricati, che qualcuno è tentato di sciogliere gordianamente, con un taglio netto che determini un prima e un dopo. Il punto è che, dopo l’uccisione di Haniyeh a Teheran, il conflitto tra Israele e Hamas è divenuto il conflitto tra Israele e Iran. Del resto, Israele ha sempre pensato l’Iran, tanto più se dotato di armamento nucleare – prospettiva che alcuni ritengono vicina – come la sola, vera, minaccia strategica per l’esistenza dello Stato ebraico. E così vuole ora sia percepito lo scontro. Uccidendo il leader di Hamas nel cuore della capitale iraniana, mostrando come il regime dei turbanti e degli elmetti sia una “tigre di carta” – a venire umiliati sono stati i Pasdaran, incapaci di garantire la sicurezza del loro ospite e, di riflesso, quella dei leader del paese – Israele sapeva che non poteva attendersi una risposta di circostanza: come un attacco missilistico destinato, grazie a Iron Dome e al supporto di Usa e alleati, a fare, come in aprile, pochi danni e un numero limitato di vittime. Eppure ha colpito, segno che ha messo in conto un’altra reazione.
L’azzardo è stato questo. Nonostante la contrarietà degli Usa, ormai incapaci di stoppare il sin troppo riottoso alleato, Netanyahu ha, infatti, messo in conto la possibilità di un conflitto su scala più vasta. Ma se questa è la prospettiva, sul piatto dev’esserci il bersaglio grosso: un radicale indebolimento, se non la caduta, del regime iraniano. Non si rischia, altrimenti, un’escalation che obbligherebbe tutti, compresa la Russia, e sotto forme diverse la Cina, a schierarsi con Teheran e i paesi arabi – in queste ore l’Egitto si è detto “neutrale” e ha comunicato a Tel Aviv di non poter concedere ai caccia israeliani l’uso del suo spazio aereo – a una prudenza mirata a prevenire contraccolpi interni. L’Iran è sciita, ma “l’asse della Resistenza” con gli islamisti palestinesi sunniti depotenzia, agli occhi di molti fedeli, il carattere confessionale della divisione in nome della comune avversità a Israele, tornato , dopo Gaza, a essere assai inviso nel mondo della Mezzaluna.
Netanyahu ha due scenari davanti: reagire all’ora X, colpendo in profondità il Libano e, se possibile, spingendo le milizie con il vessillo giallo oltre il Litani, limitandosi a colpire alcuni bersagli militari iraniani; oppure aggredire duramente l’Iran, con raid aerei e informatici, mirati a mettere fuori gioco siti nucleari, industria dei vettori militari, centri di comando dei Guardiani della Rivoluzione. Tanto da costringere i Pasdaran a contromisure che indurrebbero l’Idf a replicare nuovamente. In questa vorticosa spirale, la posta massima sarebbe la caduta del regime iraniano insieme alla sconfitta degli Hezbollah e di Hamas, ormai privi di protettore.
Il nodo, strategico, è quello consueto: che faranno gli Usa, con Biden ormai anatra zoppa, di fronte alla scelta tra frenare Bibi, accontentandosi di un colpo limitato a Khamenei, o vedere nella polvere le bandiere di un regime che inneggia ancora “Morte all’America”? Per la Casa Bianca, si tratta, in ogni caso, di uno scenario non pensato nella Sala Ovale, al Pentagono, o a Foggy Bottom, che ridisegna la regione e seppellisce il negoziato a Gaza. Esattamente ciò che vuole Bibi, che nella guerra punta a durare e a lavare l’onta del 7 ottobre.
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