Nel vortice di notizie di questi giorni di attesa e paura ce n’è una, a tutti gli effetti collaterale, che però ha colpito un nervo scoperto dell’opinione pubblica israeliana. Giovedì 1 agosto un volo di Lufthansa da Monaco a Tel Aviv è atterrato a Cipro, ufficialmente per «ragioni tecniche». Ma ben presto è emerso che l’equipaggio non voleva atterrare in Israele, temendo imminenti attacchi dall’Iran e dai suoi alleati ai danni dello stato ebraico. La rappresaglia in seguito all’assassinio mirato di uno dei vertici di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut, e di quello di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran, è d’altronde annunciata.

Ai passeggeri sono state date due opzioni: chi voleva poteva scendere a Cipro, ma senza avere accesso ai bagagli. Chi rimaneva sarebbe rientrato in Germania. Il servizio dell’emittente televisiva israeliana Channel 12 ha dato spazio a lamentele indignate: come è stato possibile un tale affronto ai viaggiatori israeliani?

Ma in serata Lufthansa ha comunicato che tutti i voli per Israele fino all’8 agosto sono cancellati, assecondando di fatto la scelta estemporanea del suo equipaggio. In totale sono dieci le compagnie, tra cui Ita fino al 6 agosto, che hanno scelto la stessa strada in via precauzionale.

Una porta verso il mondo

Per gli israeliani Ben Gurion, lo scalo intitolato al fondatore dello stato il cui volto scolpito nel ferro accoglie tutti i passeggeri in arrivo, è molto più di un aeroporto. Tanta parte delle frontiere terrestri di Israele è sigillata: a nord ci sono Libano e Siria. A est e a sud i confini con Giordania ed Egitto, paesi con cui Israele ha stretto accordi di pace anche se i rapporti rimangono freddi.

Ben Gurion si configura così come l’unica porta verso il mondo di una popolazione cosmopolita che ama viaggiare. E che, in uno stato grande quanto una regione media italiana, viene spesso presa da una sensazione di claustrofobia. Soprattutto in tempo di crisi.

Ecco allora che le autorità israeliane sono subito intervenute per sdrammatizzare. Il numero uno dell’aviazione civile Shmuel Zakai ha fatto sapere che «i voli per Israele sono sicuri». Zakai ha anche ricordato come lo scorso aprile, in occasione del primo attacco diretto della storia dell’Iran a Israele, lo stato ebraico aveva chiuso i cieli di propria iniziativa. «Questo ci ha fatto guadagnare molto credito a livello internazionale», ha detto. «Quando valutiamo che lo spazio aereo non è sicuro per i voli, lo chiudiamo».

Poco dopo l’insediamento del governo di Benjamin Netanyahu, prima della guerra, la via di fuga degli israeliani verso il mondo era già andata in tilt. Lunedì 25 marzo 2023 uno sciopero della Histadrut, la storica federazione dei sindacati israeliani, aveva paralizzato i voli in uscita per protestare contro una riforma della giustizia voluta dal premier e dai suoi alleati. Due giorni dopo Bibi, che fino a quel punto era stato irremovibile anche di fronte a manifestazioni oceaniche, aveva annunciato un passo indietro.

Gli open-skies agreements

Non è solo il bisogno di evasione, tuttavia, ad aver reso lo scalo di Ben Gurion più di un aeroporto per Israele. A un livello più profondo lo scalo è diventato simbolico del periodo di benessere e relativa sicurezza vissuto dal paese nel decennio e mezzo circa prima del tragico risveglio del 7 ottobre. Fra il 2010 e il 2022 il Pil era cresciuto del 60 per cento, il mercato immobiliare aveva vissuto un’impennata, e l’introduzione dell’Iron Dome e la relativa stabilità delle frontiere aveva reso i morti in guerra quasi un ricordo lontano.

In questa fase gli open-skies agreements firmati con i partner internazionali, come l’Unione europea, erano stati la ciliegina sulla torta. Improvvisamente, con l’arrivo delle low-cost, il viaggio all’estero, già colonna portante dello stile di vita israeliano, diventava accessibile quasi per tutti. Israele sentiva davvero di non avere più nulla da invidiare a un paese occidentale.

Per l’Italia una volta la scelta tipica era fra un biglietto da 750 euro con El Al o Alitalia o uno da 500 con lo scalo in Svizzera. Ora i voli Ryanair per Bergamo e simili offrivano biglietti al prezzo di un viaggio in autobus. All’estero la forza della valuta locale, lo Shekel, faceva sembrare tutto abbordabile (d’altronde, nel 2021, la Economist Intelligence Unit aveva nominato Tel Aviv la città più cara del pianeta).

Negli ultimi dieci mesi gli israeliani hanno visto sfumare una lunga fase di tranquillità e abbondanza. Hanno riscoperto la fragilità che aveva caratterizzato tanta parte della loro storia, ma che si erano illusi di essersi lasciati alle spalle. La vicenda di Lufthansa ha fatto balenare il timore di veder sfumare anche un’altra certezza: quella di poter sempre prendere una boccata d’aria.

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