Secondo le tesi prevalenti le mosse di Israele sono sconsiderate e rischiano di aprire una guerra regionale, se non mondiale. Il rischio c’è ma, a ben guardare, si intravede una lucida strategia che può risultare vincente per uno stato ebraico costretto alle trattative
Premessa: siamo in un territorio ignoto, ogni previsione può essere smentita nelle ore successive. Mi azzardo, però, ad avanzare una lettura degli eventi mediorientali di questi giorni che si discosta un po’ rispetto alle previsioni di estensione del conflitto che, sia chiaro, mantengono una totale legittimità e in parte persuadono anche me.
Colpendo prima il numero due di Hezbollah in Libano, Fouad Shukr, e poi Ismail Haniyeh a Teheran, Israele ha fatto una scommessa win-win. Reduce dal tour negli Stati Uniti, prolungato per festeggiare il compleanno del figlio «disertore», si sono definitivamente infrante le speranze “bibiste” di una qualche forma di supporto per i folli piani di conquista di Gaza dei suoi compagni messianici di governo, chiunque sia l’inquilino alla Casa Bianca.
Sul versante democratico, la cosa era già ampiamente chiara, ma anche Donald Trump aveva già dato dei segnali, col suo modo spiccio, in una recente intervista televisiva in cui diceva che la guerra nella Striscia era durata anche troppo.
Non che ci volesse un grande stratega a prevederlo, visto che: Egitto, Giordania ed Arabia Saudita sono alleati americani nell’area; l’amministrazione Trump è quella che ha portato a termine il lungo tragitto di avvicinamento del mondo sunnita allo stato ebraico attraverso gli Accordi di Abramo, che l’ex presidente considera una propria creatura; bastava dare un occhio allo sbandierato «piano del secolo», con cui la stessa amministrazione voleva risolvere l’eterno problema israelo-palestinese per rendersi conto quanto fosse incompatibile con le pretese dell’attuale compagine di governo israeliana.
Persino il tanto vistoso quanto inutile spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, risolvendo un’ambiguità che il Senato statunitense prorogava da decenni, è stato fatto in ossequio alla teologia dispensazionalista delle comunità evangeliste americane che considerano Trump una sorta di messia.
Gli omicidi mirati
Preso atto della situazione, appunto nell’aria già da settimane, Netanyahu doveva portare a casa qualcosa per presentarsi di fronte a un elettorato che, oltre alla solita metà che lo considera un corrotto criminale, gli attribuisce la responsabilità per l’attacco subito da Hamas, per la sorte degli ostaggi, per una guerra protratta all’infinito senza alcuna strategia e per non avere alcun piano realistico per il dopo.
Mosso dal suo solito realismo machiavellico, il premier israeliano si è dunque spostato, in sinergia con l’esercito, verso la strategia degli omicidi mirati tanto cara a Golda Meir. Domanda spontanea: poteva farlo da subito ed evitare la guerra? No, il parallelo col 1973 non sta in piedi. In questo caso la risposta militare era doverosa, se non altro per ridare sicurezza al fronte Sud del paese, ancora oggi ridotto a una distesa di tombe disabitata.
In ogni caso, qualunque cosa faccia lo stato ebraico, la condanna dell’opinione pubblica internazionale scatta automatica. Come se i missili di Hezbollah e i droni degli Houti rientrassero nella cornice legale dei rapporti fra nazioni. Così come nessuno invoca l’assai generico principio di proporzionalità di fronte allo sciame di centinaia di razzi e droni che l’Iran ha lanciato verso Israele ad aprile, in risposta ad un, dicasi uno, missile contro un palazzo consolare in Siria.
I doppi standard
Doppi standard, ognuno ha i suoi, che in Israele conoscono benissimo e che servono solo ad alimentare la secolare campagna anti-ebraica di cui si servono da che mondo e mondo le forze islamiste. Almeno studiarle ste cose descritte nei dettagli dai leader religiosi da decenni. Con in mano lo scalpo dei vertici di Hamas ed Hezbollah, Netanyahu potrà dire mission accomplished e, finalmente, sedersi seriamente a un tavolo di trattative imposto dall’alto.
Ora la palla passa a Teheran che ha davvero una brutta gatta da pelare. Se non reagisce, ne esce umiliata come non mai. Se reagisce come ad aprile scorso, fa una figura persino peggiore: Israele può colpire con un missile, o bomba che sia, sul tuo territorio e tu gliene spari trecento senza che nemmeno uno raggiunga il suo suolo?
Se reagisce alzando in modo davvero pesante, con ogni probabilità andrà incontro a una risposta esiziale. Dando anche per scontato che il Mossad, evidentemente con i piedi in territorio iraniano sia da tempo coordinato con le forze anti regime. In ogni caso, ad Israele andrebbe bene.
Perché colpire Haniyeh, che rappresentava l’ala più pragmatica del movimento? Evidentemente la finestra si era aperta su di lui. Se ne avvantaggerà Sinwar? Non penso stia dormendo sonni tranquilli. Provocherà un arresto delle trattative? Hamas, semplicemente, non può trattare, la sua è una partita o la va o la spacca che si è aperta il 7 ottobre. L’interlocutore è il mondo arabo sunnita. Copre questa ovvietà con la retorica del martirio, che è la retorica dei più deboli.
Come detto, ora palla a Teheran: i video che mostrano Khamenei che scruta il cielo durante la veglia funebre per Haniyeh rischiano di essere l’immagine iconica della sua impotenza.
© Riproduzione riservata