Dietro al “si” e al “no” alle armi a Kiev ci sono due visioni politiche molto diverse che hanno ciascuna la sua dignità, ma che è singolare ritrovare nella stessa lista elettorale
L’aggressione di Putin all’Ucraina, la strage, gli stupri, i rapimenti di Hamas in Israele, hanno provocato non solo due terribili guerre con centinaia di migliaia di morti, ma hanno scosso in profondità gli equilibri geopolitici del pianeta e provocato forti tensioni nelle società europee e americana.
Negli Stati Uniti molto della sfida tra Biden e Trump si sta giocando sull’andamento della guerra in Medio Oriente. In un’Unione Europea ancora lontana dall’unità politica, il riguardo di Orban per Putin convive con le impegnative posizioni di Macron. Le proteste studentesche in Europa e negli Usa sono segnali di vistose fratture politiche e di un vasto malcontento sociale che scuote le democrazie occidentali. Gli effetti della guerra saranno profondi e di lunga durata.
Anche la politica italiana e in particolare le sue forze di centrosinistra sentono molto la tragedia della guerra.
A poche ore dalla diffusione delle liste elettorali per il Parlamento europeo il centrosinistra italiano, invece di unità, ha mostrato vistose crepe proprio sulla guerra in Ucraina e cioè su un punto molto delicato della difficile fase politica. Alcuni candidati indipendenti nelle liste del Pd si sono affrettati a dichiarare che quando saranno chiamati a votare sull’invio di armi all’Ucraina, voteranno certamente “no” per affrettare la fine della guerra. A queste dichiarazioni ha risposto a stretto giro di posta la segretaria Elly Schlein ricordando che sull’invio di armi a Kiev il Pd ha sempre votato a favore e continuerà a farlo.
Questo episodio potrebbe essere velocemente derubricato come una delle tante minuscole contraddizioni di cui è piena la politica italiana. Acquista valore perché siamo alla vigilia di un importante turno elettorale e ne sono protagonisti stimati candidati indipendenti di quel Partito democratico che anche dall’opposizione dovrebbe trasmettere al suo elettorato l’idea di unità, di affidabilità, di una sinistra capace di esprimere un pensiero lungo e vedere il futuro. Dividersi in campagna elettorale su questioni che riguardano la collocazione internazionale dell’Italia non corrisponde all’idea di Partito Democratico che in tanti si sono fatta.
Dietro al “si” e al “no” alle armi a Kiev ci sono due visioni politiche molto diverse che hanno ciascuna la sua dignità, ma che è singolare ritrovare nella stessa lista elettorale.
Il tema non è la pace perché nel Pd non c’è nessun elettore, nessun iscritto e nessun dirigente che non voglia la pace, nessuno che non voglia la fine della carneficina. Il problema è che la pace o è vera o non è. Questo è il punto poco chiaro. Sinora sono mancate parole vere su quale sia la pace che si sta cercando.
Oggi, se all’Ucraina non arrivassero più le armi dei suoi alleati, non c’è alcuna garanzia che Putin fermerebbe l’aggressione e le sue esercitazioni nucleari alla frontiera non sono rassicuranti.
Chi non vuole mandare armi all’Ucraina, molto semplicemente sta dicendo che la soluzione della guerra è quel disarmo unilaterale di Kiev che corrisponde alla sua resa. Dietro questa posizione è possibile che ci sia non solo una valutazione delle forze in campo, ma anche l’idea che dopo la bandiera bianca di Kiev, Putin si pacificherebbe anche lui. Ecco, quello che finora è mancato nei ragionamenti di chi non vuole più inviare le armi sono parole che spiegano su quale visione del futuro si fonda l’ipotesi di disarmare Kiev, parole che ipotizzino cosa potrebbe fare Putin, quali garanzie ci sono di una vera pace e non di un’Ucraina che dopo il disarmo in quattro e quattr’otto diventa un’appendice della Russia.
Al contrario, la ragione di chi sostiene che la fornitura di armi a Kiev debba proseguire, sta tutta nella conoscenza del modus operandi di Putin e nella consapevolezza che oggi nel mondo le linee di tendenza geopolitiche fanno temere che alle guerre in corso si possano aggiungere pesanti scontri militari anche nell’oceano Pacifico. Aiutare un paese europeo amico a difendersi corrisponde a ciò che vorremmo fosse fatto per noi se l’Italia venisse aggredita e invasa. Ma corrisponde anche a quel richiamo morale che nella vita quotidiana ci impone di intervenire quando in nostra presenza un essere più debole, anche a noi sconosciuto, viene aggredito con violenza da qualcuno più forte di lui.
Nel merito dobbiamo augurarci che quando i nuovi parlamentari europei prenderanno possesso della loro carica la guerra in Ucraina sia terminata e questo dibattito sia diventato inattuale.
Restano invece molto attuali le divisioni in politica estera nel centrosinistra italiano che non è possibile vengano accantonate per quieto vivere. In tempi difficili come i nostri, in politica non si può stare nello stesso partito, nella stessa lista, nella stessa coalizione senza condividere la politica estera e la collocazione internazionale dell’Italia. E una condizione che dovrebbe essere scontata ma, soprattutto a sinistra, sappiamo che non lo è.
L’assenza di un comune sentire in politica estera non è un ostacolo solo nei rapporti tra Pd e Cinque Stelle di Conte. L’Ucraina sta mostrando anche differenze tra il Pd e alcuni indipendenti nelle sue liste. C’è un solo modo per superare questi ostacoli. Farli emergere, parlarne con amicizia e serietà, considerare i principi e saper valutare gli avvenimenti, mettere al primo posto gli interessi del Paese e dell’Europa, che sono più in alto di quelli del partito e che talvolta possono persino costringerci a compromessi con le nostre idee e le nostre aspirazioni.
Sere fa qualcuno ha ricordato in televisione che la dialettica interna aiuta i partiti a crescere, che è il sale della politica e che in passato persino nel PCI hanno convissuto posizioni diverse.
Questo è vero ed è vero che anche in un partito ben strutturato come il PCI si confrontavano con franchezza posizioni diverse tanto che per l’Ungheria e nel caso del Manifesto si arrivò persino alla scissione. Ma non ricordo casi di “indipendenti di sinistra” eletti nelle liste del PCI che abbiano usato la libertà di voto per differenziarsi sulle grandi questioni di politica estera. Negli organi del PCI, nel suo Comitato Centrale, si discuteva e si votava. Decisa la linea, a mia memoria, non è mai successo che nelle scelte importanti la minoranza non seguisse le indicazioni assunte a maggioranza. Anzi, nel PCI il compito di illustrare la posizione del partito all’opinione pubblica veniva affidato proprio a chi aveva dissentito.
Ci si può chiedere se quel senso alto del partito vada recuperato e se sia meglio o peggio dell’attuale disordine politico. La risposta a questa domanda può aiutarci a prevedere il futuro del sistema politico italiano.
Oggi gli indipendenti eletti nelle liste del Pd non fanno parte degli organi del partito e sta alla loro valutazione decidere quando e come discostarsi dalla linea senza che il partito che li ha accolti veda incrinata la sua unità. Ma è quantomeno originale che già in campagna elettorale ci siano pubblici distinguo in politica estera tra la posizione di un candidato indipendente e quella del partito nelle cui liste chiede di essere eletto.
Evidentemente non c’è stato un chiarimento preventivo su come da indipendenti si sta in un partito e nemmeno la ricerca preliminare di un idem sentire in politica estera e sui diritti individuali tra un partito e i candidati accolti in lista.
In politica estera la realpolitik non è una bestemmia e si può comprendere che in casi estremi, pur di aver la pace, si possano proporre soluzioni anche immorali purché siano realistiche. Ma chi, in uno spirito di realpolitik, può sul serio dire quali sarebbero le conseguenze del disarmo dell’Ucraina in seguito alla decisione occidentale di interrompere il rifornimento di armi? Quali garanzie di pace avremmo se chi ha voluto la guerra si vedesse offrire l’Ucraina su un piatto d’argento? E quale pace ci sarebbe? Putin avanzerebbe ancora? E fino a dove? Il territorio ucraino che Putin non ha ancora invaso avrebbe sufficienti garanzie di integrità e di sovranità? E se Putin dopo aver visto l’Ucraina disarmata la occupasse interamente, l’Europa e gli USA cosa dovrebbero fare? Stare a guardare o girarsi dall’altra parte?
Anche la realpolitik ha le sue regole e oggi non si può chiedere di fermare i rifornimenti di armi all’Ucraina senza dire cosa si deve realisticamente aspettare che accada subito dopo. Perché un conto sono seri negoziati, un conto è un intervento diplomatico costruttivo, un altro arrendersi perché la mancanza di nuove armi rende impossibile difendersi.
Putin e l’Ucraina non stanno combattendo una partita a scacchi, ma una guerra tra un paese aggressore e un altro che è stato aggredito.
Ma anche in una partita a scacchi, quando un giocatore decide di muovere un pezzo deve saper prevedere le mosse successive del suo avversario. Perché se non sa pensare a quel che succederà dopo, perderà la partita. Perderà tutto.
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