In molti definiscono la crisi in corso come la guerra di Netanyahu. Al netto dell’indubbia convenienza del leader israeliano di prolungare il più possibile il conflitto, lo scenario sul terreno è assai più complicato
Al netto dell’arcinota convenienza di Benjamin Netanyahu a far proseguire la guerra, anche estendendo il conflitto all’intero Medio Oriente, sarebbe una grande semplificazione di quanto avviene nell’area ridurre tutto a questo dato.
Anzitutto perché Netanyahu, per quanto stia nuovamente dimostrando la sua cinica abilità politica mettendo in scacco vecchi e nuovi alleati, non ha alcun potere di condurre un conflitto senza l’appoggio dei vertici militari, che già in più occasioni hanno dimostrato la propria indipendenza dal governo, anche durante le lunghissime trattative di questi mesi.
Netanyahu intercetta piuttosto un sentimento diffuso in larga parte degli apparati e dell’opinione pubblica, per cui il 7 ottobre è una data spartiacque, che ha sancito l’impossibilità di vivere di fianco a vicini con cui è il momento di arrivare alla resa dei conti.
Basta seguire i media israeliani per capire che da quelle parti la narrazione è del tutto diversa rispetto alle nostre latitudini, che spesso, al di là dell’atteggiamento dei governi che hanno in Israele un partner strategico irrinunciabile, pare maggiormente allineata col sentimento musulmano, dove si è assunto il linguaggio della vittima come antico strumento di propaganda.
Arrivando persino all’indecenza di appropriarsi del vocabolario della Shoà, o dalla plurisecolare storia dell’antigiudaismo occidentale.
Il J’accuse di Francesca Albanese, che rievoca quello celebre di Émile Zola durante il processo Dreyfuss, ne è un plastico e scandaloso esempio. Andando all’essenziale, in Israele, e qui il sentimento è davvero trasversale, si pensa che sia l’Iran ad aver iniziato lo scontro, alimentando attraverso i suoi proxies in Siria, Iraq, Yemen, Gaza (con ramificazioni nella West bank) un conflitto regionale di cui lo Stato ebraico sarebbe il destinatario finale.
Tenendo conto che parliamo di un Paese dove ogni venerdì si prega per la distruzione dell’entità sionista, non pare una lettura peregrina. Chi ha ragione?
Entrambi e nessuno perché fissano arbitrariamente in un punto, guarda caso sempre nel campo dell’altro, l’origine di una circolarità violenta in cui si confondono vittime e carnefici, torti e ragioni, aggrediti e aggressori. It’s the Middle East baby!
Forse converrebbe ricostruire un principio di responsabilità attorno alle conseguenze che possono avere i propri atti, piuttosto che sulla domanda sull’origine dei conflitti.
Cosa vuol dire minacciare costantemente il diritto all’esistenza di un altro Stato, armando altre milizie che lanciano quotidianamente razzi, palloni incendiari, costruiscono tunnel sotterranei da cui sbucano nel territorio nemico commando terroristici come fatto da Hamas dal 2007 in avanti? Che conseguenze ha distribuire armamenti a milizie che li usano in modo aggressivo, anche per solo scopo di propaganda interna?
Dall’altra parte, che conseguenze ha perpetrare all’infinito un regime di occupazione militare, sempre più macchiato da violenze criminali che hanno raggiunto l’obbrobrio della forma di pogrom come visto ad Huwara? Quali sentimenti potrà suscitare il prolungamento di un embargo permanente che trasforma, qui con la complicità dell’Egitto, un territorio in una sorta di prigione senza uscita? E iniziare un conflitto, che ogni giorno di più si traduce in un massacro di cui non si riconosce l’obiettivo cosa si pensa possa produrre?
Una cosa dobbiamo definitivamente acquisire: chiunque sostenga l’una o l’altra linea di ricostruzione del conflitto aderisce acriticamente a propagande organizzate, che hanno pure una base di verità nel sentimento che le produce, ma su cui speculano ad arte i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti.
Se si dice che questa è la guerra di Netanyahu si fissa in una sua presunta volontà onnipotente, l’inizio di una storia che ha invece la forma di una spirale capace di risucchiare tutti.
Tornando all’oggi, che tanto ci ansia, parrebbe che Israele questa mano l’abbia vinta: se Teheran ripete l’esibizione pirotecnica di aprile, come molti analisti israeliani pensano, ne esce profondamente umiliata, palesando tutta la sua impotenza di fronte a un nemico che apparirebbe enormemente superiore sul piano tecnologico e militare.
Se attacca in grande stile mirando al livello di saturazione di Iron dome coordinandosi con Houti e Hezbollah, offrirebbe il fianco a un attacco che potrebbe essere esiziale. Tenendo anche conto della spinta dell’opposizione interna. Naturalmente, è così se si ragiona a cortissimo raggio.
Che se ne fa Tel Aviv di tutte queste vittorie? Se si dovesse mai realizzare la fantasia del regime change a Teheran, magari con un ritorno degli eredi dello Scià sospettosamente attivi nei mesi scorsi, resterebbe uno spazio perché movimenti fondamentalisti si approprino del sentimento di frustrazione che si diffonderebbe in parte della popolazione. È una vecchia storia che nel mondo musulmano va avanti dall’800. Cambiare tutto per non cambiare niente.
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