La vera vittima dell’uccisione di Ismail Haniyeh, figura di spicco dell’ala politica di Hamas che risiede in Qatar, è l’Iran. Teheran esce umiliata da una manciata di giorni in cui Israele, tornando alla linea degli attacchi mirati che ha sempre contraddistinto la sua azione militare, ha distrutto il porto yemenita di Hodeida (secondo l’intelligence israeliana luogo di approdo delle forniture di armi inviate dal governo degli ayatollah), ucciso, sconfinando a Beirut, il numero due di Hezbollah Fuad Shukr, e ora, appunto, la morte di Ismail Hanieyh proprio nella capitale iraniana, dove gli avrebbero dovuto assicurare massima sicurezza.

Non semplice da decifrare il coinvolgimento americano, dove già si era indicata Beirut come linea rossa invalicabile. Difficile, però, pensare che l’Idf abbia potuto agire senza l’approvazione dell’alleato più stretto, che non è impossibile abbia dato il via libera al governo israeliano in cambio di un’apertura alle trattative in corso per un cessate il fuoco permanente a Gaza.

Un modo per dare a Netanyahu un elemento per dire mission accomplished ad una società civile ulteriormente polarizzata dalle orribili notizie di torture sui prigionieri palestinesi che arrivano dal carcere di Sde Teiman, definito ormai la Abu Grahib israeliana. Notizie che in Israele si susseguono da mesi, costringendo l’Idf ad aprire un’inchiesta interna. Al di là della retorica, saranno in molti a festeggiare la morte di Haniyeh.

In primis i governi nazionalisti arabi, che vedono peggio del fumo negli occhi la galassia dei gruppi fondamentalisti emanazione della Fratellanza musulmana, da tempo gravitati in orbita iraniana. Dinamiche profonde di lungo corso, se è vero che questi spostamenti iniziano dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, momento di svolta in cui lo sciismo politico del leader iraniano comincia ad esercitare una forza attrattiva nei confronti della masse sunnite. Primo sbocco: l’occupazione della Grande Moschea de La Mecca guidata da Juhayman al-‘Utaybidi pochi mesi dopo la caduta dello Scià.

Riyad, Il Cairo, Amman, Bahrein, Emirati Arabi Uniti sempre più sembra stiano facendo fare ad Israele il lavoro sporco che per loro è un vorrei ma non posso. Non verseranno lacrime nemmeno in Cisgiordania, dove una Autorità nazionale palestinese costretta da un’irreversibile crisi di legittimità si stava piegando ad un avvicinamento forzato con il gruppo che l’ha espulsa dalla Striscia nel lontano 2007.

Ora, dopo le urla di indignazione di rito, tenterà di riguadagnare quote facendo passare la strategia di attacco di Hamas come perdente in partenza. Più volte ci ha provato in questi mesi Abu Mazen, ma senza mai trovare il consenso necessario. Non ci riuscirà nemmeno questa volta, semmai l’effetto sarà l’immediato naufragio del goffo tentativo cinese di pacificazione fra le fazioni palestinesi, più che altro fatto in chiave anti-americana.

La vera incognita sono, appunto, l’Iran e Hezbollah, che non possono esimersi da una qualche forma di risposta, ma quale? Un attacco diretto allo Stato ebraico come quello dell’aprile scorso, servito più che altro a Tsahal per offrire un affascinante spettacolo pirotecnico al pubblico internazionale, rischierebbe di accentuarne il sentimento di umiliazione proprio nel momento di insediamento del suo nuovo leader Pezeshkian. Con l’ulteriore problema di dimostrarsi deboli di fronte alle rivolte interne.

Un attacco da parte di Iran e Libano su larga scala sarebbe guerra aperta e mano libera per quella parte degli apparati israeliani che hanno interpretato il 7 ottobre come giorno della resa dei conti, rievocando categorie bibliche come la battaglia di God e Magog. Cose che in Medio Oriente hanno sempre una certa presa.

In questo scenario, certo non una passeggiata nemmeno per lo Stato ebraico, Teheran ne uscirebbe con ogni probabilità perdente, con conseguenze dirette su tutte le sue milizie regionali e sul destino stesso della Repubblica islamica. Ne verrebbero danneggiate fortemente anche Cina e Russia, che, proprio per questo, è facile tenteranno di contenere la risposta iraniana, svolgendo il ruolo che gli americani si sono intestati dall’altra parte della barricata. Insomma, si naviga a vista, come è ormai prassi in un mondo in cui le vecchie linee rosse non tengono più senza che ne siano state tracciate delle nuove.

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