- Negli ultimi vent’anni le mobilitazioni popolari sono cresciute a dismisura ma hanno progressivamente perso la capacità di influenzare le decisioni nelle democrazie, figurarsi quella di rovesciare i regimi.
- È l’effetto paradossale di una piazza globale che ha fin troppi mezzi per far sentire la propria voce, e perciò s’illude che non ci sia bisogno della fase “politica”.
- L’articolo fa parte del nuovo numero di Scenari: “La piazza e il regime”, in edicola e in digitale da venerdì 16 dicembre.
Dall’uccisione di Mahsa Amini il 16 settembre centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in oltre 80 città dell’Iran, capeggiate dalle donne che si tagliano ciocche di capelli in segno di protesta.
Secondo le stime (per difetto) dell’organizzazione Iran Human Rights, dall’inizio delle proteste fino al 10 dicembre almeno 458 manifestanti sono stati uccisi negli scontri con la polizia, migliaia sono stati arrestati e 11 sono stati condannati a morte dopo rapidi processi sommari.
Due esecuzioni sono già state compiute con ampio risalto pubblico per massimizzare l’effetto sui manifestanti: l’ultima è quella di Majidreza Rahnavard, attivista impiccato nella città di Mashhad dopo 23 giorni dal suo arresto. Era accusato di «oltraggio verso Dio» per avere pugnalato a morte due guardie Basij.
La piazza cinese
Nel frattempo in Cina nel fine settimana del 26 e 27 novembre migliaia di studenti si sono riversati nelle piazze per manifestare contro la politica “zero Covid” con cui il regime per mesi ha tenuto segregate intere metropoli.
La protesta per i lockdown generalizzati si è sovrapposta e saldata ad altre ragioni che hanno infiammato le manifestazioni.
Gli studenti che agitano fogli bianchi denunciano la censura del governo repressivo di Xi Jinping e allo stesso tempo lo sguardo è rivolto ai campi di internamento dello Xinjiang, dove nei confronti della minoranza degli uiguiri si sta consumando quello che decine di governi qualificano come un genocidio.
Il risultato è stato il più rilevante movimento di piazza in Cina dai tempi di Tiananmen, al quale il regime ha opposto un atteggiamento repressivo simile a quello mostrato nel 1989 ma con l’efficacia tecnologica garantita dal suo onnipresente sistema di sorveglianza.
Pechino ha sì allentato alcune restrizioni che hanno scatenato la protesta, ma ha anche dispiegato un enorme numero di agenti per sedare le rivolte e ora usa tutti gli apparati a sua disposizione, incluse le strutture universitarie, per dare la caccia ad attivisti e semplici manifestanti che hanno lasciato tracce digitali per coordinare le proteste.
Opposizione in Russia
Dall’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio centinaia di migliaia di russi hanno manifestato contro la guerra, sfidando un regime che ha risposto con metodi brutali e ha inasprito le pene detentive per chi critica quella che Vladimir Putin si ostina a definire “operazione militare speciale”.
Secondo l’associazione per i diritti umani Ovd-info, almeno 19.500 manifestanti sono stati arrestati dall’inizio della guerra e i tribunali russi lavorano senza sosta per emettere severe sentenze di condanna per i critici del regime.
Caratteristiche specifiche e circostanze storiche rendono questi regimi autoritari molto diversi e dunque imparagonabili fra loro, ma in questo frangente sono accomunati dall’emergere di iniziative di resistenza popolare che hanno pochi precedenti nella storia recente.
Il crescere delle proteste dovrebbe mettere in difficoltà o almeno impensierire queste autocrazie già più o meno isolate da meccanismi sanzionatori e di marginalizzazione diplomatica, ma in realtà, come ha notato anche il New York Times, negli ultimi anni le manifestazioni di massa hanno progressivamente perso la capacità di mettere in crisi i regimi autoritari.
Un progetto di ricerca dell’università di Harvard che monitora le manifestazioni popolari dagli anni Trenta del secolo scorso dice che le mobilitazioni anti autoritarie non sono mai state così ampie e partecipate, e allo stesso tempo non sono mai state così inefficaci nel rovesciare gli autocrati o nel persuadere elementi del regime a unirsi all’opposizione.
Non significa che singole iniziative di resistenza popolare non possano avere successo. Nello Sri Lanka, ad esempio, le rivolte di un gruppo eterogeneo della società civile hanno fatto capitolare il governo, ritenuto responsabile della disastrosa situazione economica del paese.
I dati però indicano che un esito del genere è sempre più raro, e infatti sollevazioni popolari significative ad Haiti, in Indonesia, a Hong Kong e nel Myanmar non hanno minimamente scalfito il potere.
La svolta negativa
È una tendenza nota agli studiosi della resistenza di piazza. Erica Chenoweth, la politologa che coordina lo studio di Harvard, ha sostenuto con entusiasmo la capacità dei movimenti dal basso di avere impatti apprezzabili sui governi, ma verso la fine degli anni Zero le cose sono drasticamente cambiate.
Secondo i dati di Harvard, nel corso del Ventesimo secolo le proteste hanno accresciuto la loro capacità di generare cambiamenti nei sistemi politici, fino a toccare l’apice dell’efficacia all’inizio del millennio, quando statisticamente due sollevazioni su tre ottenevano almeno alcuni dei principali risultati che si prefissavano.
Nel decennio successivo le proteste sono cresciute in tutto il mondo per numero, partecipazione e intensità, ma la loro capacità di incidere è «crollata drammaticamente», arrivando a dimezzarsi. L’inverno che ha congelato le primavere arabe è l’eredità più nota di quella stagione di speranze frustrate.
Le osservazioni condotte a partire dal 2020 illustrano una ulteriore sterilizzazione del fenomeno: soltanto una sollevazione popolare su sei produce un effetto politico rilevante. L’entusiasmo della rivolta si scontra con la fredda realtà della serie storica.
Le cause
Ci sono diverse ipotesi sulle cause di questa tendenza. Una riguarda gli «adattamenti della repressione dei governi autoritari su queste campagne», ha scritto Chenoweth, notando che all’accresciuta capacità di mobilitazione dei manifestanti attraverso i social media e qualunque altro strumento digitale corrisponde una ben più potente abilità dei governi di reprimere, oscurare, manomettere o usare a proprio vantaggio le reti che veicolano le proteste.
Una delle verità indigeste per chi ha creduto nell’inevitabilità dell’effetto democratizzante del mondo digitale è che anche gli autocrati hanno accesso a internet. Mentre i manifestanti democratici organizzavano sit-in su Twitter, i regimi costruivano fabbriche di troll e finanziavano cybereserciti.
In un’intervista alla Npr la ricercatrice ha indicato alcuni fattori fondamentali per valutare l’effettivo trasformativo di un’iniziativa popolare, per distinguere gli eventi che davvero possono cambiare l’assetto politico da quelli che, pur generando effetti positivi in termini di solidarietà e costruzione di una coscienza civile condivisa, sono in realtà lievi increspature storiche che vengono gestite e riassorbite dagli apparati di sicurezza.
Il più importante di questi fattori è «se iniziamo a vedere oppure no delle crepe nei pilastri che sostengono il regime». In pratica: «Ci sono funzionari civili che scioperano o abbandonano i loro posti di lavoro? Vediamo membri delle forze armate che si danno malati in un numero significativo, oppure si rifiutano di eseguire gli arresti o di sparare alla folla disarmata?».
Da questo punto di vista, i vari fronti della protesta globale non stanno producendo, almeno in maniera visibile, fenomeni di diserzione e disobbedienza tali da suggerire significative fratture all’interno dei sistemi politici.
Un altro criterio importante per valutare le proteste, secondo Chenoweth, è il livello di coesione e la capacità organizzativa che i movimenti mostrano una volta che sono sotto attacco. La repressione sbaraglia immediatamente le iniziative della piazza? La struttura di leadership della protesta, ammesso che ci sia, va subito in crisi quando le autorità mostrano il solito violento copione di arresti, torture, minacce, sequestri, carcerazione e intimidazioni, oppure mostra capacità di rigenerarsi e riorganizzarsi di fronte alle difficoltà?
Su questo versante, le proteste in Iran, Russia e Cina mostrano esiti variabili e in contrasto fra loro, ma quello che pare accomunarli è una dirompente capacità di mobilitazione spontanea alla quale non fa seguito una struttura capace di capitalizzare politicamente l’azione.
Paradossi della mobilitazione
Ci sono anche altre ipotesi sui limiti delle proteste contemporanee che si affiancano a questa. La sociologa turca Zeynep Tufekci da anni osserva che nell’era digitale le proteste hanno prodotto molte adesioni ma pochi cambiamenti. Una delle ragioni è, paradossalmente, proprio la quantità di mezzi a disposizione di chi mobilita e organizza.
I mezzi digitali hanno reso semplice fare quello che fino a qualche decennio fa richiedeva mesi di lavoro, organizzazioni strutturate e leader capaci di coagulare e rappresentare le istanze di manifestanti che dovevano essere faticosamente raggiunti, convinti, mobilitati e infine radunati.
Il risultato, secondo Tufekci, è che oggi le adunate di piazza, per quanto ampie e partecipate, sono punti di partenza, non l’esito maturo di iniziative politiche coltivate nel tempo.
Assomigliano più «al rifiuto di Rosa Parks di cedere il suo posto sull’autobus che alla marcia su Washington del 1963», evento che ha richiesto al popolo di Martin Luther King nove mesi di lavoro per portare al Lincoln Memorial 250mila persone, una minima frazione di quelli portati in piazza da altre iniziative recenti assai meno gravide di conseguenze.
L’inizio della fine delle proteste, per Tufekci, è stata la mobilitazione contro la guerra in Iraq, che ha portato un numero senza precedenti di manifestanti nelle strade degli Stati Uniti e di tutto il mondo.
Un’iniziativa enorme dal punto di vista simbolico ed enormemente inutile in quanto a capacità di modificare le decisioni della politica: non solo la mobilitazione non ha fermato la guerra, ma i milioni di manifestanti non sono riusciti nemmeno a impedire la rielezione di George W. Bush nel 2004.
Un decennio più tardi la ricercatrice ha visto materializzarsi una trama analoga nelle primavere arabe, impressionanti fiammate di protesta sostenute con ampie manifestazioni di solidarietà e partecipazione da mezzo mondo poi finite nel nulla, o quasi.
«Questi grandi movimenti nati rapidamente spesso si trovavano senza una direzione una volta che l’inevitabile reazione dei regimi si era abbattuta su di loro», ha scritto Tufekci. Il problema è che «non avevano gli strumenti per navigare nella difficoltosa fase successiva, quella della politica, perché non avevano avuto bisogno di averli per arrivare fino a quel punto».
La fase politica
In un certo senso, per gli oppositori dei regimi è perfino troppo facile far sentire la propria voce. Per arrivare a infastidire i tiranni con iniziative popolari, che immediatamente suscitano solidarietà internazionale, è sufficiente uno sforzo pre-politico, senza strutture e organizzazioni ramificate ispirate da una strategia che sia più articolata e resistente di un nobile sentimento di rivolta.
Secondo le osservazioni della ricercatrice, insomma, la fase politica non è soltanto il rilevante compimento di un percorso che inizia in modo viscerale e semi spontaneo nell’ambito della società civile, ma la precondizione perché quella stessa mobilitazione possa ambire ad avere la stessa efficacia che hanno avuto un tempo iniziative analoghe.
L’ultimo decennio è stato per molti versi segnato dalla crisi di efficacia politica di proteste che sono però cresciute esponenzialmente per quantità e intensità.
Il movimento di Occupy Wall Street ha mobilitato decine milioni di americani, le proteste per l’omicidio di George Floyd hanno mosso l’intero paese e la Marcia delle donne dopo l’insediamento di Donald Trump ha portato nelle piazze americane circa l’1,5 per cento della popolazione in un solo giorno.
Ma Wall Street è andata avanti come se nulla fosse, i fondi alla polizia non sono stati tagliati e Trump è ancora un candidato non trascurabile alle elezioni del 2024.
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