- Il presidente dell’Associazione nazionale alpini ha offerto le sue scuse alle centinaia di donne che dichiarano di aver subito molestie fisiche e verbali durante la 93esima adunata nazionale a Rimini.
- La protesta delle donne, sostenuta dalla rete di Non una di meno, ha ottenuto quindi un primo risultato: il riconoscimento dell’accaduto, che l’Ana aveva provato in prima battuta a derubricare a «maleducazione» episodica.
- L’ammissione (tardiva) di responsabilità da parte degli alpini non può essere però il punto di arrivo: deve essere il punto di avvio di una discussione pubblica sui modelli culturali maschili.
Dopo le prime denunce, il presidente dell’Associazione nazionale alpini si è deciso a porgere le sue scuse alle centinaia di donne che dichiarano di aver subito molestie fisiche e verbali durante la 93esima adunata nazionale a Rimini. «Chi si è comportato così non è un vero alpino», ha detto Sebastiano Favero in un’intervista al Corriere della sera, aggiungendo che sarà fatto ogni sforzo perché «non avvenga più in futuro». La protesta delle donne, sostenuta dalla rete di Non una di meno, ha ottenuto quindi un primo risultato: il riconoscimento dell’accaduto, che tanti, inclusa l’Ana, avevano provato in prima battuta a derubricare a «maleducazione» episodica, attribuendola a «giovani» che si sarebbero confusi tra gli appartenenti al corpo.
Il passo avanti segnala l’importanza delle mobilitazioni social che, dal #MeToo in poi, portano allo scoperto ciò che tutti sanno ma nessuno dice. Questo è il dato nuovo con cui anche le parti dell’opinione pubblica più refrattarie al cambiamento sono costrette a fare i conti: viviamo in un tempo in cui l’idea di consenso ha assunto uno spessore nuovo, in cui le giovani donne non sono più disposte a tollerare in silenzio i fischi e i palpeggiamenti, non intendono accettare che sia “normale” essere ridotte a preda, oggetto di scherno, motivo di sollazzo di gruppo.
L’ammissione (tardiva) di responsabilità da parte degli alpini non può essere però il punto di arrivo: deve essere il punto di avvio di una discussione pubblica sui modelli culturali maschili, se l’intento è davvero produrre un cambiamento.
Chiedersi cosa spinge gli uomini a cercare soddisfazione per sé e cemento per il gruppo nell’umiliazione e nella molestia fisica e verbale delle donne. Guardare al fondo di questi atteggiamenti predatori per vedervi un discorso tra uomini, di cui le donne sono oggetto o posta in palio.
Interrogarsi sulla possibilità di trasformare simili comportamenti, così spesso descritti come innati nel “maschio”, e quindi inemendabili. Questo è il tipo di discussione che eventi come quelli di Rimini devono provocare.
Perché se si resta nel frame della mela marcia (o in quello della goliardia di gruppo), la sequenza di episodi simili – che riguardino le adunate degli alpini o le piazze del capodanno – offrirà sempre l’occasione per spostare l’attenzione altrove: verso l’abuso di alcol o la gestione dei grandi eventi, in altri casi verso l’etnia dei molestatori o la loro provenienza di classe.
Ogni volta che il problema delle molestie viene all’attenzione, la tentazione è quella di chiudere la polemica con qualche misura simbolica. Ora, per esempio, c’è chi propone di sospendere le adunate, seguendo lo schema, molto consueto in questo paese, di vietare ciò che non sappiamo cambiare. Non è così, però, che si va al cuore del problema: ad affrontare il rapporto tra sessualità maschile e potere.
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