- Sedici e diciassette maggio 2015. Migliaia di alpini e di iscritti all’Associazione nazionale alpini si sono ritrovati a L’Aquila per il raduno nazionale.
- Finiti i cerimoniali, il copione è stato simile a quello raccontato in questi giorni dalle tante testimoni vittime di abusi e molestie all’ultima adunata di Rimini.
- Una ragazzina di 15 anni venne adescata da due uomini: l’allora ventottenne Davide Ceci, iscritto da dieci anni all’Associazione Nazionale Alpini e il suo coetaneo Smir Belhaj, un venditore ambulante. Sono stati condannati in primo grado.
FOTO
Una foto dell'adunata degli alpini del 2015 (Manuel Romano/LaPresse)
Sedici e diciassette maggio 2015. Migliaia di alpini e di iscritti all’Associazione nazionale alpini si sono ritrovati a L’Aquila per il raduno nazionale, a ben 26 anni dall’ultimo incontro in Abruzzo (a Pescara nel 1989).
Ore di sfilata, una bandiera lunga 99 metri, la presenza di cariche politiche per accogliere degnamente le penne nere giunte da tutto il paese.
Finiti i cerimoniali però, il copione è stato simile a quello raccontato in questi giorni dalle tante testimoni vittime di abusi e molestie all’ultima adunata di Rimini e -sempre secondo le tante testimonianze- anche negli anni precedenti, già a partire dagli anni Ottanta e chissà quanto prima ancora.
Torniamo all’Aquila, perché quello che è accaduto nel capoluogo abruzzese spiega bene il valore e l’importanza del fiume di testimonianze di questi giorni.
Era sera, la città pareva letteralmente “invasa” da alpini che festeggiavano.
Secondo i racconti emersi dopo l’adunata di Rimini anche quella de L’Aquila fu caratterizzata da numerosi episodi di molestie verbali e fisiche, e in quel caso la denuncia è arrivata eccome.
Una ragazzina di 15 anni venne adescata da due uomini: l’allora ventottenne Davide Ceci, iscritto da dieci anni all’Associazione Nazionale Alpini e il suo coetaneo Smir Belhaj, un venditore ambulante.
La fecero bere. La condussero in un posto isolato, dove approfittandosi del suo stato di alterazione abusarono di lei entrambi.
Dopo un po’ la ragazza decise di sporgere denuncia, le indagini furono complesse ma alla fine si risalì all’identità dei due uomini. Dopo ben sette anni dall’inizio del processo si deve ancora celebrare l’appello (è previsto alla fine del mese).
In primo grado, intanto, i due sono stati condannati nel 2019 con rito abbreviato a 4 anni di reclusione col pagamento delle spese processuali e l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
L’avvocata Simona Giannangeli, legale della vittima e del centro antiviolenza-Associazione Donatella Tellini che è parte civile nel processo, racconta: «La ragazza era uscita per divertirsi pensando che fosse una serata di festa e ha incontrato queste due persone. Non è riuscita a denunciare subito, piano piano ha elaborato l’accaduto e ha trovato il coraggio di rivolgersi alle forze dell’ordine. Le indagini sono state faticose, si è arrivati a identificare i colpevoli perché uno dei due, un po’ di tempo dopo la violenza, l’aveva perfino contattata su Messenger».
Come mai sia trascorso così tanto tempo dall’inizio del processo e non si sia ancora arrivati a una sentenza definitiva? «Il processo è molto lungo, la ragazza è stata perfino risentita in fase di appello e questo mi ha lasciata perplessa. Era stata creduta, ha dovuto ripercorrere tutto il vissuto. Queste dinamiche creano quel circolo di vittimizzazione secondaria che è un’altra violenza, mi preoccupa. Non si dovrebbe essere esposte più volte alla narrazione dei fatti. Spero che la condanna sarà confermata, anche se esigua. Mi chiedo perché si consenta l’accesso a riti speciali per certi tipi di reati. C’è un problema culturale e strutturale in questo paese per cui intorno alla violenza sulle donne c’è un atteggiamento normalizzante. “Fisiologico” ha detto il presidente dell’Ana, disvelandosi».
Le domando se durante il processo sia emerso il clima molesto di queste adunate in cui tutto è lecito nei confronti delle donne, quel clima che è emerso dalle testimonianze di questi giorni: «Certo, è emerso che scorrevano fiumi di alcol, che c’era un clima “allentato”, come se questo fosse il presupposto per tollerare qualsiasi atteggiamento, anche illecito. Ricordo tra l’altro che in quei giorni io stessa andai via dall’Aquila, fu tutto fuori controllo. Ci furono perfino pullman di prostitute arrivati in città».
Le chiedo, infine, cosa abbiano detto gli imputati per difendersi.
«Si sono difesi come si difendono tutti in questi casi, hanno detto che lei era d’accordo, in un clima di complicità e allegria. E poi il classico: “La ragazza appariva più grande, era seduttiva, vestita in modo provocante, è stata una bella esperienza».
Nulla di nuovo insomma.
«Già nulla. Basta leggere quanto fango si sta gettando sulle ragazze che hanno testimoniato in questi giorni per capire quanto sia normale questa mentalità e quanta strada ci sia ancora da fare per cambiare la mentalità quando si parla di violenza sulle donne».
© Riproduzione riservata