Non basta calarsi l’elmetto (occidentale) per acquisire credibilità democratica ed europeista in un battibaleno. Sa molto di posticcio e strumentale
Il parlamento europeo incarna il sogno di una federazione sovranazionale in senso proprio e cioè sovraordinata ai singoli stati nazionali. Un obiettivo che nazionalisti di ogni risma vedono come fumo negli occhi.
Basta ritornare indietro di qualche anno e compulsare le interviste e le dichiarazioni di Giorgia Meloni, nonché la sua fortunatissima biografia del 2021, per vedere di quanta ostilità verso l’Unione europea e la sua maggiore integrazione grondassero quegli interventi.
Arrivata al governo, e tenuta per mano nel suo avvicinamento a palazzo Chigi dalla patriottica preoccupazione – per i destini dell’Italia – di Mario Draghi, la leader di Fratelli d’Italia ha, per fortuna, cambiato registro (benché non siano troppo lontani i tempi in cui inveiva contro l’acquisto dei vaccini AstraZeneca e Pfizer da parte dell’Ue al posto del russo Sputnik V).
Tutti ora glielo riconoscono, e con dovizia di plausi, cosa che peraltro nessuno si è sognato di fare nei confronti dei Cinque stelle e di Giuseppe Conte, nemmeno quando ha portato a casa i 200 miliardi del Pnrr.
Maggioranza Ursula
Le elezioni europee sono importanti perché gli europeisti, disprezzati per decenni dalla destra, hanno scalfito gradualmente la riluttanza degli stati nazionali a concedere maggiori spazi di intervento al parlamento di Strasburgo.
Tra questi c’è il voto di investitura del nuovo presidente del Commissione. Il corteggiamento di Giorgia Meloni verso Ursula von der Leyen, e viceversa, sono finalizzati all’accoglimento del gruppo dei Conservatori nella maggioranza parlamentare grazie alla conferma, anche con i loro voti, della presidente uscente.
In realtà già nella passata legislatura europea e prima delle elezioni italiane il gruppo guidato da Meloni, e soprattutto il suo partito, avevano più volte votato in sintonia con i gruppi della “maggioranza Ursula” in parlamento.
Il motore franco-tedesco
I rapporti parlamentari però rappresentano solo una parte delle dinamiche dell’Unione europea. Chi dà l’input politico è il Consiglio europeo, vale a dire la riunione di capi di governo e di stato.
Le decisioni importanti e la linea politica sono frutto degli accordi tra i vari paesi, in particolare quelli maggiori. Per molto tempo si è parlato di motore franco-tedesco per via della relazione speciale tra le due nazioni, e del loro peso relativo. Per varie ragioni questo motore si è inceppato e, tra l’altro, era diventato sempre meno digeribile agli altri paesi.
In questi giorni è stato sostituto dalla riesumazione del cosiddetto “accordo di Weimar” che inserisce la Polonia al fianco di Francia e Germania. La stretta di mano tra Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Donald Tusk indica una saldatura tra le tre storiche componenti pro integrazione, Liberali, Popolari e Socialisti. Sulla stessa linea politica si trova anche la Spagna del socialista Pedro Sánchez. I quattro grandi paesi continentali condividono uno stesso allineamento sul versante europeo, ed è questo che andrà a pesare nella vita dell’Ue.
Tale sintonia è politico-ideologica e quindi, inevitabilmente. esclude l’Italia, che vanta il governo più a destra di tutta l’Unione. Certo, Meloni non ha ripetuto l’omaggio a Vladimir Putin che gli rivolse all’indomani delle sua precedente elezione quando gli fece i «complimenti» affermando che «la volontà del popolo in queste elezioni russe appare inequivocabile».
Non basta calarsi l’elmetto (occidentale) per acquisire credibilità democratica ed europeista in un battibaleno. Sa molto di posticcio e strumentale. E infatti l’Italia rimane fuori dal grande gioco dell’Europa.
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