Ha una sua plausibilità l’obiezione di chi, pur dissentendo dalla autonomia differenziata, paventa il possibile, forse probabile mancato conseguimento del quorum al referendum. Segnatamente, Calenda. A prima vista con realismo, sulla scorta di molteplici precedenti. È argomento convincente?

Mi permetto di eccepire, ma è giusto dare una risposta argomentata all’obiezione. In prima istanza, replicando con una domanda: le forze di opposizione possono permettersi di starsene con le braccia conserte dopo il varo di una riforma che, a loro motivato avviso, spacca il paese, mina l’unità e la coesione nazionale e che – sottolineo – nella sua implementazione a seguire esclude in assoluto il parlamento con intese tra governo e giunte regionali?

Conosciamo la distinzione tra rappresentanza e rappresentazione e tuttavia, pur non esaurendosi in essa, della rappresentanza fa parte la rappresentazione, anche in chiave testimoniale, ovvero il dovere di interpretare quella parte del corpo elettorale cui si intende dare voce. Il concretismo di chi teme il mancato quorum rischia di «provare troppo». Mi spiego: la logica che presiede a tale conclamata sfiducia conduce a rinunciare tout court sempre all’istituto del referendum. Possiamo decretare tale programmatica archiviazione? Un raro istituto di democrazia diretta mai come in questo caso, in via di principio, motivato: su materia grave dopo che l’opposizione è stata battuta in parlamento. Ma, riconosco, sin qui, trattasi di argomenti di principio. Mi si obietterà: si devono considerare gli effetti pratici.

Intanto la mobilitazione nel paese è già un valore in sé non privo di conseguenze. Si vedano il disagio e le crepe che si sono aperte in settori della maggioranza, specie, come è ovvio, nelle regioni del sud e nelle roro rappresentanza parlamentari. Qualcuno ha parlato di liste di proscrizione di chi ha votato la legge Calderoli in parlamento. Come se non fosse lecito e doveroso chiamarli a rispondere dei loro atti e dei loro voti. Ma veniamo all’esito del referendum quand’anche mancasse il quorum.

Tre domande: davvero avrebbe lo stesso peso il voto di chi, portandosi alle urne, esprimesse il suo fermo diniego rispetto a chi, furbescamente, si affidasse all’ignavia dell’astensionismo? Se, come è probabile, il numero dei no espressi fosse largamente superiore a quello dei sì (forse il quesito comporterà il contrario, ma ci siamo capiti) si potrebbe prescinderne? Ancora: se dal mezzogiorno si levasse un dissenso plebiscitario, una sorta di civica e democratica rivolta non vi sarebbe effetto alcuno?

Infine, la madre di tutti gli argomenti. È noto: si è astutamente concepita una legge ordinaria su materia di sua natura costituzionale. C’è qui traccia della perfida mano di Calderoli, il padre del porcellum. Ma, ripeto, è di tutta evidenza che abbiamo a che fare con uno dei tre tasselli di un medesimo disegno (contraddittorio nella visione, ma strettamente conseguente al cinico baratto tra i tre partiti di maggioranza) il cui effetto complessivo è quello di operare uno strappo nel tessuto costituzionale, intaccando principi ed equilibri della Carta: unità e indivisibilità della Repubblica, forma parlamentare, separazione dei poteri, svilimento degli organi terzi di garanzia (Quirinale, Corte, magistratura).

A fronte di una partita di questa portata e del conseguente, elementare dovere, da parte delle forze di opposizione civica e politica, di contrastare fermamente e organicamente l’intero disegno, come si può indugiare sui distinguo? Nel caso di Calenda, che ossessivamente rivendica di privilegiare il giudizio di merito su leggi e provvedimenti, ci si può attestare su ragioni tattiche e politiciste? Naturalmente, il ragionamento qui abbozzato può fare breccia solo in chi opposizione in vista di un’alternativa la vuole fare sul serio. Non per finta, non a metà.

A ben vedere qui sta il limite di chi teorizza che sia una virtù e non un limite una concezione e una pratica della politica che si risolvono nel pragmatico e singolare assenso o dissenso a questo o quel provvedimento. Senza una visione e, paradossalmente, senza la concreta considerazione della complessiva portata della posta in gioco e delle alleanze da stringere con chi se non ti è più vicino almeno è meno lontano da te. Se come bussola (e metro per misurare le distanze) non basta nemmeno il bene superiore della tenuta della Costituzione. Qui il protestato pragmatismo si risolve nel suo contrario: astrattezza, velleitarismo, autoreferenzialità.

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