La confusione regna sovrana sotto il cielo del premierato. La riforma, sempre meno «madre» di tutte le altre, rischia infatti di essere un buco nero da cui il governo faticherà a uscire.

Il sì in prima lettura al Senato, il 18 giugno, è stato un’impuntatura necessaria dopo le promesse in campagna elettorale alle europee, ma ha mostrato i rischi cui il governo e soprattutto Fratelli d’Italia sta andando incontro. E la cosa è ormai chiara anche a Giorgia Meloni.

Anche tralasciando un testo definito traballante dalla grande maggioranza dei costituzionalisti, il vero cul-de-sac in cui la premier ha capito di essersi infilata è quello della legge elettorale, necessaria se davvero si vorrà andare fino in fondo sul premierato.

Come tradizione politica ben illustra, a nessun governo ha portato bene modificare la legge elettorale, che porta con sé infiniti strascichi polemici con le opposizioni e soprattutto congestiona il dibattito pubblico intorno a un tema tecnico e percepito dai cittadini come estremamente lontano dai loro interessi.

Le elezioni francesi, subito dopo il voto nei comuni italiani, hanno poi mostrato i potenziali rischi del ballottaggio per la coalizione di centrodestra. Peccato che – prevedendo in Costituzione il premio di maggioranza e con l’ipotesi della soglia del 43 per cento – il ballottaggio sia una soluzione che rischia di essere quasi obbligata.

La ministra Elisabetta Casellati è al lavoro per proporre un testo entro ottobre e voci della maggioranza confermano che anche il maestro dei sistemi elettorali, il ministro leghista Roberto Calderoli, si sia offerto come interlocutore. Per FdI, invece, il garante sarebbe il presidente della commissione Affari costituzionali al Senato, Alberto Balboni.

La legge elettorale

La certezza, però, è che le opposizioni daranno battaglia anche su questo. E il nuovo motto è diventato: nessuna nuova discussione sul premierato prima della presentazione della proposta di legge elettorale, senza la quale la riforma costituzionale è come una macchina senza motore.

Inoltre, è inevitabile che il premierato diventi oggetto di referendum costituzionale e le opposizioni già si stanno muovendo in questo senso.

A differenza di ciò che potrà succedere con quello abrogativo promosso dalle regioni sull’autonomia differenziata, il referendum costituzionale non ha quorum, dunque basterà anche una minoranza compatta del paese per cancellare con un tratto di penna la riforma e assestare un colpo, potenzialmente da ko, anche a Meloni. Di qui l’interrogativo: i tempi per esaminare una riforma di questa portata, con l’aggiunta dell’appendice della legge elettorale, possono essere dilatati o ristretti a fisarmonica, cosa conviene fare?

Correre con l’approvazione in modo da portare il referendum al 2026 era sembrata l’opzione preferita. Oggi la direzione sarebbe quella di prendere tempo per riflettere. Anche perché, dentro la maggioranza, gli orientamenti sono diversi, soprattutto per quanto riguarda la legge elettorale, con FdI aperturista sul doppio turno, mentre Lega e FI sono contrari.

Del resto, un segnale di allerta per Meloni è arrivato indirettamente dalla presa di posizione di Sabino Cassese, decano degli amministrativisti, principe del deep state e uno dei pochi nomi di establishment non contrari al governo.

Cassese è favorevole al premierato, ma ha sottoscritto l’appello dei giuristi di IoCambio, Libertà Eguale, Riformismo & Libertà e la fondazione Magna Carta, che hanno chiesto un «cessate il fuoco» per ripensare in modo comune la riforma, «perché non finisca in una situazione di stallo». Un suggerimento che è arrivato anche a palazzo Chigi.

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