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- L’ultimo libro di Giorgio Agamben, Quel che ho visto, udito, appreso... (Einaudi 2022), ci conferma definitivamente che abbiamo a che fare con un grande snob.
- Per esempio, i pensieri ad Agamben vengono sempre in luoghi straordinari. I personaggi famosi che gli è accaduto di frequentare li chiama tutti per il solo nome di battesimo, facendoci sapere subito quanto gli sono familiari.
- Tutto questo ci importerebbe assai poco, se lo snobismo di Agamben non stingesse anche sulla sua opera. C’è qualcosa di più snob del pensare che le liberaldemocrazie sono poco diverse dal nazismo?
Ho cominciato a sospettare che Giorgio Agamben fosse un inguaribile snob quando ho letto il risvolto di copertina del suo libro Che cos’è il reale? La scomparsa di Majorana. Di solito nelle informazioni sull’autore, se si tratta di un saggio, si scrive che il tale insegna nell’università X la disciplina Y. Invece nel risvolto di quel libro stava scritto «Giorgio Agamben si è dimesso dall’università italiana nell’anno XY».
Intendiamoci: dall’università ci si può liberamente dimettere (anche se Umberto Eco ammoniva che «non si butta la toga alle ortiche», e dire che lui più di chiunque altro avrebbe potuto farlo, il successo mondiale lo esonerava per sempre della ricerca di un gagne-pain). Ma dopo che si è brigato per entrarvi e per ottenere la cattedra il buon gusto consiglierebbe di non sbandierare ai quattro venti che la cattedra si è dopo poco voluta lasciarla, anche perché questo vanifica le giaculatorie, tutt’altro che estranee al nostro, sulla bellezza dell’imparare dai propri allievi mentre si insegna.
Pensieri pensati in luoghi straordinari
Il sospetto di snobismo si è accresciuto leggendo qualche anno fa Autoritratto nello studio, una sorta di autobiografia corredata dalle foto delle proprie varie scrivanie nelle proprie varie case. Già ci vuole una bella fede in sé stessi per pensare che gli altri si debbano appassionare ai casi nostri, figuriamoci se ci si chiede di appassionarci ai libri, alle foto e alle carte che ingombrano i nostri tavoli. Ma il sospetto è diventato certezza con l’ultimo libretto di Agamben, Quel che ho visto, udito, appreso, apparso poche settimane fa da Einaudi.
In questa raccolta esile e perentoria, Agamben ci parla dei libri che ha letto e dei pensieri che ha avuto. Ma ci segnala sempre dove ha letto i primi e dove gli sono venuti in mente i secondi. E pensate che siano luoghi familiari, normali, alla portata di comuni mortali, che so, Milano, Roma o Napoli? Niente affatto: sono sempre luoghi che il tapino lettore deve andar cercando sulla carta geografica, spesso aiutandosi con Google Maps o Wikipedia. Agamben ci informa che un giorno ha visto una capra, cosa che è abbastanza normale avvenga persino nelle nostre campagne. Ma ad Agamben la capra è apparsa a Grishneshwar, che per noi è già difficile da scrivere, figuriamoci da localizzare (è una località dell’India). Altrove ha visto il volto del Santo, che è indubbiamente evento già più raro, e rarissimo se il Santo appare a Göreme, in Cappadocia. Oltre al Santo ad Agamben è apparso anche il Buddha, naturalmente ad Ajanta, sempre in India.
Beato lui che ha tanto visto e viaggiato, mentre a noi i nostri modesti pensieri venivano tra Termini e Garbatella, sballottati dalla metro, o in macchina in fila sul Grande raccordo anulare. Ma Giorgio Agamben sembra un uomo fortunato. Gli altri, per esempio, gli appartamenti in cui abitano li prendono in affitto o li comprano. Agamben no. Ad Agamben le case vengono sempre offerte, prestate, affidate. E sempre da personaggi famosi, intellettuali segnalati. Molti di loro vengono compensati, a posteriori, con ricordi non banali e ritratti interessanti. Tuttavia, Agamben non si trattiene dal citare anche persone che gli hanno prestato o lasciato l’appartamento sulle quali non ha nulla da dire, a patto, ça va sans dire, che siano sufficientemente note.
Di Giorgio Manganelli, ad esempio, sul quale pure circolano una montagna di aneddoti gustosi (l’ex-moglie, per non dir altro, ammoniva la di lui figlia «tuo padre non è solo inutile, è anche dannoso») ci sa dire soltanto che aveva voluto a tutti i costi che Agamben gli ricomprasse la stoffa a righe messa sopra la tenda «e che lui chiamava mantovana». Ora, a parte il fatto che dopo che uno ti lascia la casa a piazza delle Coppelle, a due passi dal Pantheon, compragli un pezzo di stoffa non ci pare una richiesta esosa, e comunque lamentarsene ancora dopo sessant’anni ci sembra un po’ troppo, segnaliamo ad Agamben che non era solo Manganelli a chiamare mantovana la mantovana. Si chiama proprio così, la cornice di stoffa che cinge in alto le tende con, appunto, la mantovana.
Ma Agamben non è fortunato solo con i padroni di casa, lo è anche con i vicini. Va ad abitare in un posto e poi scopre, ovviamente per caso, che vicino a lui abita un amico di gioventù di Walter Benjamin, l’autore di cui Agamben si è più occupato e del quale aveva cominciato a curare l’edizione critica, e manca poco che scopra anche lì dei preziosi inediti come gli era capitato alla Bibliothèque Nationale di Parigi.
La giacchetta di Heidegger
Che gli abbiano o no procurato appartamenti e casali, Agamben è stato circondato da personaggi famosi fin da ragazzino. Infatti, questi personaggi famosi li chiama tutti col solo nome di battesimo, come fanno appunto gli snob quando in società fanno sgocciolare qualche nome di celebrità informandoci così che il famoso di turno è loro intimo amico.
A Elsa Morante (pardon, solo a Elsa) dava del tu «prima ancora di scrivere la tesi di laurea». Pasolini lo fa recitare nel Vangelo secondo Matteo. Caproni, anzi Giorgio, gli copia personalmente una poesia. Ingeborg (Bachmann) abita a un passo da lui, a via della Croce. A questo dripping di nomi famosi Agamben ci aveva avvezzati già con le dediche dei suoi libri, dove si dedica a man bassa a Heidegger o ad altri famosi, sempre lasciando intendere così una profonda relazione, anche personale (leggete il capitolo che Gerard Genette dedica alle dediche nel suo Soglie. I dintorni del testo, e scoprirete che è un meccanismo collaudato). Per altro è noto, dato che Agamben ce lo ha ripetuto cento volte, che lui Heidegger lo ha conosciuto davvero, al seminario di Le Thor, nel 1966, come doviziosamente testimoniato dalle foto che accompagnano l’Autoritratto nello studio, e quindi questa dedica gliela perdoniamo.
Ma non gli perdoniamo di aver scritto in Quel che ho visto, udito, appreso che lì, a Le Thor, lui, Agamben Giorgio, ha «fatto in tempo ad afferrare l’ultimo lembo della giacchetta della filosofia occidentale». Ma come? Ci siamo appena liberati (e a caro prezzo) da quelli che tiravano per la giacchetta il premier Draghi e adesso ci tocca uno che tira per la giacchetta nientemeno che la filosofia occidentale? La giacchetta (un po’ stretta, gli tiravano i bottoni) ce l’avrà avuta Heidegger, mentre la filosofia, è risaputo da Petrarca in poi, è sempre andata in giro nuda.
La precocità dell’incontro con Heidegger e con la sua giacca non deve stupire. Non solo Agamben si è sempre trovato nel posto giusto al momento giusto, ma come tutti i veri geni è stato precocissimo. Anzi, proprio un Wunderkind se è vero, come scrive, che a otto o nove anni aveva redatto uno scritto nel quale aveva «fissato con precisione il nodo più intimo e involuto di cui tutti i suoi libri rappresentano il lento faticoso svolgimento».
Saremmo tutti curiosi di sapere che diavolo c’era scritto, ma naturalmente il foglio, una volta mostratogli dalla mamma, è sparito, e resteremo sempre privi di quella illuminazione fondamentale. Dobbiamo quindi ripiegare su altre prove di genialità. Eccone una: Agamben ha intuito che le parole scritte in una lingua misteriosa, piene di kappa, che chiudono il racconto intitolato Il ricordo della Basca sono, non lo indovinerete mai – in Basco. A questa scoperta Agamben tiene così tanto che, dopo averla attestata in un saggio (per altro bellissimo) su Antonio Delfini, la ripropone anche qui, nel suo autoritratto.
Filosofia snob
Vabbè, direte, ma Agamben è un fior di pensatore, noto e tradotto in tutto il mondo, e gli faremo le bucce per questo difettuccio della snobberia? Ai grandi filosofi non abbiamo perdonato colpe persino più gravi? Croce non era forse superstizioso? Hegel e Marx non erano forse dediti agli amori ancillari? Schopenhauer non buttava le vecchie giù dalle scale? Sta bene. Ma questo non si riflette in nessun modo nelle loro opere.
Invece sospettiamo che almeno un poco lo snobismo di Agamben si rifletta persino nelle cose migliori che ha scritto. Non vi pare terribilmente snob prendere a modello di vita, nelle nostre società affluenti, l’altissima povertà del monachesimo medioevale? E non è snob (per non dire di peggio) pensare che in ultimo le democrazie liberali e il nazismo poggino sulle stesse categorie, e siano legate da una solidarietà profonda?
Potremmo aggiungere che Agamben è stato snob anche nell’atteggiamento che ha preso durante la pandemia, ma questo ci sembrerebbe davvero troppo facile, e le cose troppo facili non ci piacciono. Lasciate anche a noi un poco di snobismo.
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