- La Repubblica italiana non è il Leviatano di Hobbes, è molto meglio di così. Questo è il momento di dimostrarlo.
- La sfida anarchica è esplicita, la risposta dello Stato deve essere altrettanto chiara e lineare: bisogna fermare le violenze, inclusa quella che Cospito sta commettendo su sé stesso, senza sacrificare il rispetto della legge e lo strumento del carcere duro che serve ad arginare la criminalità organizzata.
- Ci sono molte vie legali e amministrative per farlo, ora si tratta di capire la posta in gioco e agire di conseguenza.
Credo che nessuno possa restare indifferente a un uomo che rischia di morire in uno scontro solitario con lo Stato: il caso di Alfredo Cospito, che sta morendo dopo oltre cento giorni di sciopero della fame contro il carcere duro, interroga le nostre coscienze individuali e quella collettiva di una comunità, ma le risposte non sono facili e possono risultare molto sgradevoli.
Perché riguardano la natura stessa dello Stato o del potere che gli anarchici contestano e che noi, cittadini dobbiamo scegliere se e quanto difendere.
Uno stato può piegarsi a chi, programmaticamente, ne contesta l’esistenza e ne vuole minare le basi, a cominciare dal monopolio legittimo della violenza? Viene da rispondere di no.
Ma uno stato che è anche una democrazia liberale può anteporre la difesa di un principio, la solidità e la legittimità delle sue istituzioni, al valore di una vita umana? Anche qui verrebbe da rispondere di no.
Se le idee non devono prevalere sul rispetto della vita e della dignità dell’essere umano, allora però neppure gli anarchici (Cospito incluso) sono difendibili nel degradarla a mero strumento di lotta. Perché non è ovvio, in questa vicenda, chi stia sacrificando la vita di Cospito in nome di un principio superiore: lo Stato o il movimento anarchico?
«Negli ultimi anni l’area anarchica è stata l’unica – o una delle poche – a preservare l’attacco come pratica legittima, a individuare nello Stato un nemico quotidiano con cui non scendere a patti, la critica rivoluzionaria come rottura costante», si legge su ilrovescio.info, sito del mondo anarchico, in un articolo che riassume sei mesi di mobilitazione a difesa di Cospito.
Quindi, gli anarchici considerano lo stato un bersaglio e un oppressore, con il quale non si scende a compromessi, e contro il quale si mettono bombe, sia pure dimostrative, con un uso della violenza che va oltre il piano simbolico e performativo a cui si ferma, per esempio, quella degli ambientalisti di Ultima generazione.
Al di là del piano strettamente giudiziario e del codice penale, lo Stato quanto e come si può difendere? E con quale legittimità? La morte di Cospito segnerebbe la sconfitta degli anarchici o dello Stato?
La sfida di Cospito
Sul nostro giornale Giulia Merlo ha ricostruito la vicenda giudiziaria di Cospito: c’è poco da dire sui fatti. Ha ferito l’amministratore delegato dell’Ansaldo nucleare, Roberto Adinolfi nel 2012, ha messo delle bombe davanti a una stazione dei carabinieri.
Certo, non è morto nessuno, ma questo rende davvero meno grave il gesto?
Forse che i mafiosi che avevano progettato la strage fuori dallo stadio Olimpico di Roma nel 1994 vanno guardati con simpatia perché all’ultimo la carneficina non c’è stata? E quelli che hanno messo le altre bombe del 1969, parallele a piazza Fontana, hanno responsabilità radicalmente diverse da chi ha ammazzato la gente alla Banca dell’Agricoltura? Per il codice penale probabilmente sì, ma dal punto di vista politico e morale poco cambia.
Cospito comunque viene condannato, dal 4 maggio 2022 Cospito è anche sottoposto al regime del carcere duro del 41 bis, quello riservato di solito a boss mafiosi, perché considerato pericoloso e da isolare: le sue corrispondenze con l’esterno gli avrebbero consentito di continuare a esercitare un ruolo di leadership nel mondo anarchico e favorire l’organizzazione di attentati tra cui quelli ai pm proprio del processo Cospito, nel 2017.
Qui c’è un primo punto delicato: gli anarchici dicono che è assurdo ipotizzare un ruolo di guida di Cospito di un movimento che contesta le gerarchie e la verticalità, dunque gli anarchici sono anarchici proprio perché non riconoscono leader, neanche Cospito.
Ma lo Stato deve accettare la legittimità di una organizzazione così radicalmente antagonista? O può, autonomamente, considerare Cospito una figura apicale di un movimento che nella forma si proclama orizzontale ma nella sostanza, come tutte le organizzazioni umane, finisce per produrre delle gerarchie interne, formali o simboliche?
Anche il Movimento Cinque stelle diceva che “uno vale uno”, ma non era mica vero, i leader c’erano eccome anche quando non avevano alcuna qualifica ufficiale.
Il solo fatto che oggi tutti conoscano il nome di Cospito ma ignorino quello di altri anarchici e che soltanto in nome di Cospito ci siano bombe e danneggiamenti la dice lunga.
Se gli anarchici non riconoscono la legittimità dell’organizzazione del potere statuale, perché mai la giustizia dello Stato dovrebbe accettare le premesse e le regole interne del movimento anarchico?
La legittimità dello Stato
A leggere il dibattito sui siti anarchici, si capisce che il loro paradigma è quello del Leviatano di Thomas Hobbes, con lo Stato come potere assoluto e soverchiante, del quale loro non riconoscono la legittimità.
In coerenza con questa linea, Cospito rivendica l’unica libertà che Hobbes riconosceva anche ai sudditi dello Stato titolare del potere assoluto: scegliere se conformarsi alle leggi del sovrano, oppure morire.
Nel 1651, Hobbes considerava queste due opzioni equivalenti: il sovrano trova la sua legittimità nel fatto che i cittadini gli trasferiscono il potere e la sovranità per uscire da uno stato di natura nel quale la loro stessa sopravvivenza è incerta, perché ogni prevaricazione è ugualmente legittima, e dunque scelgono di sottomettersi (non in un momento storico preciso, lo stato di natura hobbesiano non è un contesto pre-esistente alla società organizzata ma una costante opzione alternativa di degenerazione).
Dunque, chi si ribella al sovrano, contesta un assetto che nasce e sussiste per garantire la sopravvivenza degli altri e per questo può legittimamente essere punito con la morte.
La ribellione e il sacrificio sono, nel Leviatano di Hobbes come nei siti anarchici, due opzioni sempre disponibili e legittime.
Nell’agire di Cospito non si può non riconoscere una certa coerenza: da attivista e bombarolo contesta la legittimità dello Stato nelle sue articolazioni e – di nuovo, come in Hobbes – se il sovrano non è più legittimo perché non riesce a garantire incolumità e sopravvivenza dei sudditi allora può essere rovesciato, anche con la forza e con la violenza.
Poiché Cospito non condivideva le leggi che stava violando quando metteva le bombe e programmava attentati (sia pure senza morti), coerentemente non accetta il modo che lo Stato sceglie di applicare la pena corrispondente.
Cospito non può contestare le sentenze, perché non nega i fatti, ma si ribella alla scelta dello Stato di limitare la sua libertà residua in carcere con una specie di pena aggiuntiva senza processo.
Di nuovo, è una questione esistenziale: Cospito rivendica il diritto di rimanere in contatto con gruppi che, programmaticamente, contestano l’esistenza stessa dello Stato e lo vedono come simbolo di questa lotta. Lo Stato, in una forma di autotutela che si esercita nell’uso della forza di cui è titolare, impedisce queste comunicazioni.
Dopo Hobbes
Nello schema del Leviatano, insomma, l’esito è scritto: Cospito contesta lo Stato, ma lo Stato è più forte, dunque Cospito deve morire sia per poter esercitare l’ultima libertà alternativa alla sottomissione, ma anche perché lo Stato riaffermi il proprio monopolio della violenza e la sovranità.
Però non siamo più nel 1651, la Repubblica italiana non si fonda sulle stesse premesse dello Stato hobbesiano, e neppure sulla dicotomia amico-nemico di Carl Schmitt, sostenitore del nazismo, che legittima e addirittura auspica la presenza di avversari da vincere ed eliminare per affermare la supremazia dello Stato e compattare la comunità.
La Costituzione italiana costruisce una democrazia liberale, che cerca di contemperare le esigenze dello Stato con i diritti dell’individuo. La Repubblica si fonda sul compromesso, non sulla violenza.
Gli anarchici considerano la morte di Cospito un esito possibile e forse necessario di questa vicenda. Leggiamo Il Rovescio: «Se Alfredo muore abbiamo perso? Vincere significa salvargli la vita? La sconfitta è nella morte e nell’insuccesso della lotta contro 41bis ed ergastolo ostativo? A questa domanda potremmo rispondere con un bel forse, ma anche qui uno sguardo così dicotomico rischia di essere miope».
E ancora: «La morte è un aspetto della vita con cui un rivoluzionario dovrebbe fare i conti. Non sappiamo se noi li abbiamo fatti, sembrerebbe però che Alfredo invece sì, e questo andrebbe colto e rispettato».
L’empatia umana deve necessariamente confrontarsi con le volontà di Cospito, ma lo Stato, tra magistratura e governo, è costretto a ragionare con strumenti diversi dall’empatia e anche dalla pietas.
E’ chiaro che non può arrendersi alla contestazione radicale che arriva dal mondo anarchico. Ma neppure ha bisogno che Cospito muoia per affermare la propria superiorità.
Anzi, soltanto una soluzione che permetta di salvare la vita a Cospito, così da privare gli anarchici di un martire, può affermare la sconfitta dell’idea anarchica di uno Stato oppressore e violento.
Perché la Repubblica italiana non è il Leviatano di Hobbes, è molto meglio di così. Questo è il momento di dimostrarlo.
La sfida anarchica è esplicita, la risposta dello Stato deve essere altrettanto chiara e lineare: bisogna fermare le violenze, inclusa quella che Cospito sta commettendo su sé stesso, senza sacrificare il rispetto della legge e lo strumento del carcere duro che serve ad arginare la criminalità organizzata.
Ci sono molte vie legali, politiche e amministrative per farlo, ora si tratta di capire la posta in gioco e agire di conseguenza.
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