Il ministro straparla di letame, ma l’agricoltura italiana è molto più avanzata di quanto si racconti. La protesta di questi giorni è espressione di interessi limitati contrapposti a quelli generali di chi soffre del cambiamento climatico che minaccia i nostri prodotti tipici
Bisognerebbe tranquillizzare il ministro Lollobrigida. L’odore di letame non lo sentono neanche gli agricoltori, o almeno non lo sentono quelli che hanno la libertà di prendere un trattore, evidentemente di loro proprietà, e portarlo sulle strade, per interrompere il traffico, scimmiottando gli attivisti di Ultima generazione, come successo a Orte il 28 gennaio.
Chissà se chi ha organizzato la protesta si ricorda dell’ultima scena de La marcia su Roma di Dino Risi (1962), dove Gasmann e Tognazzi, due camicie nere in marcia su Roma, ci ripensano, scappano e, di fronte alla linea ferroviaria, dichiarano: “O Roma, o Orte!”, citando Mino Maccari che prendeva in giro Garibaldi.
Letame, quale letame?
Gli agricoltori che protestano hanno smartphone, computer e uffici puliti, ben al riparo dall’odore del letame. Peraltro, non è detto usino il letame, dato che ci sono fertilizzanti chimici più potenti, meno costosi e purtroppo più dannosi per l’ambiente. Le aziende che questi agricoltori gestiscono molto probabilmente si fanno pubblicità sui social.
E queste persone battono sui tasti quanto me, i lettori di questo giornale e alcuni pensosi commentatori. Alcuni di loro magari gestiscono impianti agricoli di precisione, usando dispositivi elettronici per monitorare le piante e gli animali, per gestire l’irrigazione e per varie altre necessità. E di concreto o materiale non hanno le fatiche fisiche o la relazione con la terra, o con la Terra e la Tradizione.
Ormai da anni, le fatiche fisiche sono appannaggio quasi esclusivo di immigrati, regolari e non, che senza cittadinanza e diritti portano i pomodori e le fragole sulle nostre tavole in ogni stagione. La narrazione delle proteste dei trattori fatta da Lollobrigida e da alcuni commentatori in questi giorni è una nostalgia romantica, questa sì da intellettuali anziani e abbastanza fuori dal mondo. Bisognerebbe immaginarsela virato seppia. Non Fascisti su Marte, ma Fascisti in Campagna.
Ingiustizie globali
Questa narrazione non è solo un tentativo di inchiodare la sinistra alla solita accusa di radicalismo chic. È anche irrispettosa per lo stesso mondo che cerca di difendere.
L’agricoltura italiana è molto più avanzata e moderna di quanto si racconti. Ma è anche un luogo di ingiustizie, sia per chi le aziende le gestisce, sia per chi ci lavora. Ingiustizie che hanno a che fare con la distribuzione delle ricchezze e del rischio imprenditoriale, con lo strapotere delle multinazionali delle sementi, dei fertilizzanti, della grande distribuzione alimentare, con le condizioni di lavoro, e, ovviamente, con l’impatto ambientale dell’agricoltura intensiva e di massa.
Gli agricoltori non sono solo i padroni dei trattori, sono anche i loro impiegati, i loro braccianti, i loro schiavi, talvolta, i loro clienti e fornitori.
Gli interessi in gioco
La protesta dei trattori non è solo espressione di limitati interessi contrapposti agli interessi generali di chi soffre e soffrirà dei danni del cambiamento climatico. È espressione degli interessi di una sola parte del mondo agricolo, cioè di piccoli padroncini, e non degli interessi dei lavoratori o di chi subisce gli impatti delle modalità tradizionali di agricoltura.
Non è espressione, soprattutto, degli interessi di tutti gli agricoltori del mondo e di quelli del futuro, che dall’avanzata dei deserti, dalle ondate di calore e di siccità, e da tutti gli altri effetti, avranno moltissimo da perdere.
Il ministro Lollobrigida non difende l’agricoltura, né tutta l’agricoltura italiana. Difende una parte limitata di interessi locali, un gruppo sociologico che ha corrispondenti in altri paesi dell’Europa, ma non può ambire minimamente a essere una classe, né in senso economico, né in senso marxiano.
Rischio climatico
Per capire i profondi impatti del cambiamento climatico sull’agricoltura mondiale, si potrebbe guardare il documentario Thank You for the Rain (2017, di Julia Dahr e Kisilu Musya) che racconta come un agricoltore kenyota prenda coscienza dei rischi che il clima che cambia porrà alla sua attività, sino a diventare un attivista.
Per capire le conseguenze sul nostro paese, basterebbe pensare a che cosa ne sarà dei nostri prodotti tipici quando l’orografia e il paesaggio italiano verranno sconvolti dall’innalzamento del livello del mare e dalla desertificazione.
Questa sciagura si abbatterà sui figli di chi protesta e la via per evitarli è fare sacrifici adesso, non protestare.
E tuttavia questi interessi limitati dovrebbero pure essere rappresentati, e riconciliati con l’interesse generale. Questo è un altro dei compiti non svolti dalla sinistra di questo e di altri paesi.
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