La trasformazione del Movimento 5 stelle da, per l’appunto, movimento a partito, giunge forse in ritardo e suscita più interrogativi. Nato con un misto all’italiana di qualunquismo e antiparlamentarismo, non, dunque, né soltanto né specialmente, populismo, il Movimento suscitò la mobilitazione di molti attivisti e, soprattutto, elettori che, altrimenti, si sarebbero confinati per scelta e volontà nell’astensione.

Sull’onda dell’antisistema, già contravvenendo al suo principio «no alleanze», andò al governo. Privo di competenze, secondo principio «nessuno che avesse avuto cariche politiche», il suo antiparlamentarismo, «aprire il parlamento come una scatoletta di tonno», si tradusse nella tremenda semplificazione del taglio del numero dei parlamentari.

Meglio sarebbe stato tentare qualche innovazione tecnologica alle modalità di svolgimento dei lavori parlamentari. A questi lavori sicuramente non giovò la rigida applicazione del limite di due mandati, misura che impedisce la formazione di una classe politica al prezzo di privarsi di esperienze e competenze e quindi anche di influenza.

Declino inevitabile

L’onda di qualsiasi movimento può rimanere alta soltanto per un certo, mai molto lungo, periodo di tempo. L’effervescenza collettiva deve sfociare in qualcosa di più solido, altrimenti svanisce in un misto di delusione e risentimento. L’azione di governo (svolta) al governo servì a mantenere effervescenza e entusiasmo per un non troppo breve periodo. In assenza di qualche forma di istituzionalizzazione, alla quale le modalità di lavoro online non erano e non sono in grado di contribuire, il declino diventò, ed è stato, inevitabile.

La decisione di abolire il limite dei due mandati apre una delle strade che conducono alla trasformazione del Movimento in partito: associazione di uomini e donne che presentano candidature, ottengono voti, vincono cariche. Le comunicazioni e le votazioni online sono di ostacolo alla formazione di un comunità che agisce sul territorio, che recluta, seleziona, promuove, rappresenta e governa, apprendendo la politica, acquisendo meriti, sperimentando alleanze.

La collocazione progressista «indipendente» (ma chi si definirebbe “dipendente”, eterodiretto?) deve forse essere intesa come la delimitazione dell’area nella quale si cercheranno alleanze, ma il campo progressista in Italia è già piuttosto affollato e, almeno, in parte, piuttosto propenso al litigio come strumento di differenziazione.

Se progressista implica spingere avanti la società, la cultura, l’economia, la politica internazionale c’è tutta una elaborazione da fare, anche in competizione con gli altri progressisti, nessuno dei quali mi pare particolarmente attrezzato e avanzato, una volta segnati i punti di riferimento essenziali. Almeno al di là delle Alpi ce ne sono. Di nuovo, ripeto in attesa di smentite convincenti, gli scambi on line non agevolano ricerche e confronti assolutamente necessari.

Recuperare gli elettori

L’aggiunta nel sistema politico italiano di un protagonista disponibile a interazioni anche tese e conflittuali nel largo ambito progressista può risultare molto positiva a due condizioni. La prima è che il Partito delle 5 stelle affini i suoi strumenti telematici per ampliare non soltanto le opportunità decisionali, ma soprattutto la conversazione democratica intesa a comprendere le preferenze e gli interessi dei cittadini.

La seconda condizione è che la competizione inevitabile fra i progressisti non rimanga confinata nel ristretto ambito degli elettori già votanti. Recuperare, motivandoli, i milioni di elettori che dal 2013 al 2018 ritennero che il Movimento 5 stelle offriva cambiamenti reali e profondi come nessun altro, e dopo se ne allontanarono, costituisce un obiettivo sistemico in grado di dare slancio e forza al partito nascente. Con beneficio della politica italiana.

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