Dalla Ue alla Cina, le ultime uscite ufficiali hanno svelato la fragilità della premier, il suo tatticismo privo di visione. L’allineamento pro-atlantico e pro-europeo era stata la garanzia data alla comunità internazionale di essere affidabile e non più anti-sistema. Il disvelamento delle sue ambiguità e contraddizioni la priva di quello scudo e di quella legittimazione
Il pregio maggiore del governo – forse anche l’unico – rimandava alla politica estera. I primi passi sono stati perfettamente in linea con le due tradizionali linee guida adottate da quasi tutti i governi italiani, pur con qualche sbavatura negli anni berlusconiani: fedeltà e allineamento atlantico e sostegno alla Unione europea. Rispetto al conclamato anti-europeismo degli anni dell’opposizione, confermato anche nei primissimi passi post-elezioni – «è finita la pacchia» – Giorgia Meloni ha fatto un’apprezzabile inversione ad U e si è accodata alle posizioni del mainstream comunitario.
Qualche scartamento c’è stato – l’opposizione al Mes e alla ratifica del nuovo Patto di Stabilità – ma tutto sommato il governo ha mantenuto la barra sulla scia europea. Lo attesta anche il comportamento di voto dei suoi eletti al parlamento di Strasburgo nella scorsa legislatura. E poi la fermezza anti-russa e filo-ucraina, con conseguente, rocciosa, adesione alle posizioni Nato, hanno sigillato in senso occidentale, e quindi affidabile, la nostra posizione internazionale.
Un merito per queste posture va riconosciuto al ministro degli esteri, Antonio Tajani, sufficientemente navigato nei meandri europei da evitare sbandamenti. Ma nulla ha potuto quando la premier è intervenuta in prima persona sui tavoli europei. Il voto contro la nomina di Ursula von der Leyen a presidente della commissione Ue, nonostante la sbandierata reciproca cordialità, ha cambiato d’un colpo il quadro. È stato come aver buttato via il biglietto vincente della lotteria.
Più che in Italia, dove si sono mobilitati allo spasimo i mass media filo-governativi per tamponare il disastro, tutto l’establishment internazionale ha reagito con sconcerto unito a disillusione: in sostanza, sarebbe venuta a galla la vera natura nazionalista e sovranista della premier. Un danno reputazionale difficilmente rimediabile che indebolisce la nostra posizione in ambito europeo, con riflessi nella classe dirigente internazionale.
Ma non è finita lì. Meloni continua nei suoi dérapage. Il nuovo disastro l’ha fatto in Cina, non a caso ancora una volta priva del tutoraggio del suo ministro degli esteri. Dopo aver obbedito alla richiesta americana di non rinnovare il memorandum della Via della Seta firmato dal governo Conte I – tema su cui si è montato un Everest di panna montata, come se ci fossimo inginocchiati alla corte del Gran Khan – è andata a Pechino a ricucire i rapporti.
Tutto bene in apparenza. Sorrisi, contratti, foto opportunity. Il passo falso è arrivato alla fine quando Meloni si è arrogata il ruolo di ponte tra Cina e Unione Europea, dimenticando che prima di lei erano andati a Pechino il presidente francese e il cancelliere tedesco, e che entrambi hanno un interscambio, soprattutto i tedeschi, non paragonabile con quello italiano.
Pretendere di essere il partner di riferimento della Cina e, soprattutto, di parlare a nome dell’Unione Europea senza alcun mandato, e per di più quando si è in rotta di collisione con la presidenza della Commissione, significa avere perso contatto con la realtà. O essersi messa in continuità con quei momenti di velleitarismo della politica estera nazionale (la visita del presidente Giovanni Gronchi in URSS nel 1960) che sembravano tramontarti da molti decenni.
Non paga di essersi intestata il ruolo di ambasciatrice europea del Celeste Impero ha trovato anche il modo di irritare ulteriormente il mondo comunitario . Le reazioni stizzite, sopra le righe, al rapporto sullo stato dei diritti nei paesi membri dell’UE sono rimbalzate, con effetto eco molto disturbante, nelle stanze dell’Unione. Di nuovo ci si è posto il problema se il governo italiano sta modificando le sue posizioni sulla spinta dei suo alleato Salvini, emarginando e mettendo in difficoltà l’altro partner di coalizione.
Questo mese horribilis del governo rivela le fragilità politico-ideali della premier, il suo tatticismo privo di visione: del resto, come si fa ad abbandonare d’un tratto quell’approccio nazionalista e sovranista in cui si è vissuto per anni senza una autentica e palese revisione ideologica?
L’allineamento pro-atlantico e pro-europeo era stata la garanzia data alla comunità internazionale di essere affidabile e non più anti-sistema. Il disvelamento delle sue ambiguità e contraddizioni la priva di quello scudo e di quella legittimazione. Il momento Meloni sta tramontando. La vita del suo esecutivo è a scadenza: si consumerà con la consultazione referendaria sulla riforme istituzionali già in porto, quella sull’autonomia differenziata, e in arrivo, quella del premierato, se vedrà la luce.
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