Consapevole delle potenzialità dello storytelling (vi ricordate la sua scuola delle “tre i”, internet, inglese, impresa, di Silvio Berlusconi?) la classe politica italiana sembra sempre più interessata a manipolare l’opinione pubblica attraverso un uso scriteriato del linguaggio. Ma se vent’anni fa il politico di turno si limitava a buttare là parole d’ordine utili solo a creare false aspettative sul futuro, oggi chi governa usa le parole per alimentare un clima di paura e di disagio. È in questo clima inquinato, d’altronde, che prosperano i populismi e trovano la loro giustificazione le scelte politiche più reazionarie e liberticide.

Prendiamo il caso delle parole usate dal ministro Valditara per la scuola italiana del nostro tempo, a cominciare dal lemma “merito”. All’apparenza sembra una parola innocua, ma il suo uso è tutt’altro che neutro. Per cominciare, al significato positivo della parola, che indica il fatto di meritare, cioè di essere degni di un premio o di una lode, se ne associa uno negativo, poiché si può essere meritevoli anche di un castigo o di una punizione.

Il concetto di merito, usato dallo Stato per definire la pratica di conferire onorificenze, è inscindibile dall’idea che ci sia un soggetto titolato a giudicare chi sia o meno meritevole. Il merito, inoltre, ha a che fare con la carenza di risorse, poiché è solo quando una cosa non è disponibile per tutti che diventa necessario scegliere i meritevoli.

È il caso di un premio letterario, ma anche di una borsa di studio o di un posto letto in uno studentato: dal momento che non investiamo abbastanza da poter dare a tutti un determinato servizio, allora si devono introdurre dei criteri di selezione.

Anche la Costituzione italiana, d’altronde, dice di aiutare i «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi», perché «hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Si parla di quei gradi, cioè, che sono successivi all’obbligo scolastico e che per questo sono meno accessibili: le scuole secondarie superiori, per esempio, che possono essere poco raggiungibili e troppo costose per alcune famiglie, e le università, poco diffuse sul territorio nazionale e oggi inaccessibili per gran parte della popolazione.

Associare la parola “merito” a “istruzione”, quindi, ha il significato di limitare la portata di quest’ultima, riconoscendo implicitamente che l’istruzione non è per tutti. Il ministero dell’Istruzione e del Merito, infatti, è deputato alla gestione dell’intero sistema di istruzione, che in grandissima parte interessa persone in obbligo scolastico (10 anni, da 6 a 16 anni di età), e non dovrebbe quindi interessarsi se non marginalmente al “merito”, ovvero alla selezione di chi deve beneficiare dei gradi più alti nonostante non ne abbia la possibilità o, secondo la concezione negativa del termine, della selezione di chi deve essere punito e quindi escluso dal servizio pubblico.

Proviamo a fare ulteriore chiarezza prendendo in esame un’altra parola feticcio del professor Valditara: “decoro”. In italiano questa parola designa la dignità nel comportamento, nei modi o nell’aspetto, ed è sinonimo di contegno, compostezza, decenza, pudore, ritegno. Si usa nel contesto di frasi come «comportarsi con decoro» o «è un comportamento che calpesta il nostro decoro». Il ministro Valditara l’ha usata in un suo comizio dello scorso anno, quando lanciò l’idea di assegnare a ogni insegnante uno «studiolo», allo scopo di «dare dignità e decoro» al loro lavoro.

Non stupisce quindi che la parola torni nell’articolo 3 della legge sul voto in condotta, che recita: «Misure a tutela dell’autorevolezza e del decoro delle istituzioni e del personale scolastico». Il decoro, anche in questo caso, non è del soggetto ma viene garantito o presidiato dall’esterno, ovvero da uno Stato punitore, che attraverso i voti si arroga il diritto di sancire comportamenti ritenuti inappropriati. D’altronde, in ambito giuridico si ritiene che il decoro personale sia offeso quando un individuo è vittima di un’ingiuria.

Per tenere insieme merito e decoro possiamo ricorrere a una terza parola prediletta dal professor Valditara, che è “umiliazione”. Quest’ultima è emersa in un contesto meno formale, non durante conferenze stampa o comizi accuratamente programmati ma nell’ambito di un incontro di un paio di anni fa, parlando di fronte a un pubblico amico.

In quell’occasione Valditara valutò positivamente la punizione esemplare inflitta da un dirigente scolastico a uno studente ed esclamò: «Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità». Ecco allora che una scuola che non è in grado di fornire un servizio di istruzione pubblico universale (l’istruzione per tutti, meritevoli e non) e che non è in grado di preservare la propria dignità (il decoro), è allora una scuola in cui diventa legittimo l’uso sistematico dell’umiliazione, come la bocciatura motivata dalla “condotta”, ma anche la sanzione amministrativa al docente che critica il ministro.

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