Il secondo discorso di Netanyahu alla nazione iraniana ha fatto scattare l’associazione con l’elezione di Donald Trump. Una lettura ideologica del quadrante mediorientale che non aiuta a capire la posta in gioco dell’intera area. Il supporto a Israele, in realtà, non è mai venuto meno neanche con l’Amministrazione Biden, nonostante i fortissimi attriti fra Casa Bianca e governo israeliano
Dopo il secondo discorso di Benjamin Netanyahu rivolto alla popolazione iraniana, è scattata automatica l’associazione con l’elezione di Donald Trump in nome di questa internazionale nazionalista, che in comune ha solo una linea propagandistica per poi, come dice l’ossimoro stesso, confliggere su tutto.
L’idea prevalente è di un Netanyahu rinvigorito dall’elezione del Tycoon, che gli darebbe carta bianca nel suo piano di azione in Medio Oriente. Un’interpretazione, ai miei occhi, assai ingenua e, soprattutto ideologica, come noto, approccio da scongiurare in ambito geopolitico, dove le azioni degli Stati vengono lette attraverso traiettorie strategiche inscritte nella grammatica del proprio territorio.
Nel caso degli Usa gli interessi coincidono con lo stabilizzare l’area attraverso gli Accordi di Abramo, punto conclusivo di un lungo percorso di avvicinamento fra mondo sunnita e Stato ebraico, in funzione anti Iran, che si è aperto, perlomeno, con la fine della guerra fredda, quando molti Paesi arabi iniziarono ad elaborare il trauma del ’48, cogliendo i vantaggi di una collaborazione con Tel Aviv, con cui iniziarono a stabilire partnership nei campi più disparati: dall’agroalimentare, a quello sanitario, degli aerotrasporti, militare, fino a quello energetico.
In realtà, per trovare l’origine di questo percorso bisognerebbe arretrare al 1979, anno della pace con l’Egitto seguita agli accordi di Camp David dell’anno precedente, firmata da quel Sadat che si dimostrò talmente preoccupato dalla rivoluzione khomeinista da ospitare l’esilio dello scià Mohammad Reza Pahlavi. Ben conscio della forza attrattiva che l’instaurazione del regime degli ayatollah stava esercitando sulle masse arabe e sugli stessi Fratelli musulmani, considerati, a torto o ragione, il più grande pericolo interno.
Così, dopo aver tentato in ogni modo di scongiurare un’estensione del conflitto e di fermare il massacro a Gaza che rischiava di allontanare i partner arabi, persino rinunciando al diritto di veto in sede Onu, gli Usa si sono arresi alla politica del fatto compiuto imposta da Netanyahu, per accogliere il mutamento strategico iniziato con la risposta israeliana al lancio di migliaia di missili di Hezbollah dal 7 ottobre in avanti, che ha spopolato il Nord del Paese.
Un piano di vera e propria riscrittura del Medio Oriente, a cui la Casa Bianca di Biden pare aver dato supporto, al di là di un’ovvia retorica elettorale, dimostrandosi, ancora una volta, ben salda dietro il proprio principale alleato nell’area.
È indicativa in tal senso la consegna di nuove batterie del sistema di missile antimissile Thaad, dopo aver visto il sistema difensivo israeliano vacillare sotto i colpi balistici dell’ultimo attacco iraniano. Stesso spartito, si potrebbe dire, seguito dall’Arabia Saudita di Bin Salman, vero Deus ex machina dell’area a mio parere, che, dopo aver tentato la strada diplomatica attraverso gesti di apertura nei confronti di Teheran (almeno due), ha puntato decisamente sulla saldatura dell’asse con Tel Aviv nel quadro di un Medio Oriente che non ammette più terze vie di sorta.
Come, poi, Israele voglia portare avanti questo piano è a dir poco oscuro. L’ipotesi più accreditata, anche perché l’unica che abbia un minimo senso, è di una manovra a tenaglia che stimoli una sollevazione interna attraverso un attacco esterno coordinato con una parte dei pasdaran, unica componente con una reale forza militare nel variegato mondo dell’opposizione iraniana.
Si sostituirebbe, così, la teocrazia oscurantista iraniana con un regime militare nello stile dei Paesi arabi, certamente più funzionale agli interessi israeliani e sunniti. Un vero e proprio libro dei sogni, in cui agiscono infinite variabili.
Il fallito colpo di stato in Turchia nel 2016 è lì come monito per tutti. In ogni caso, è almeno una strategia che dà una finalità all’azione militare senza farla sprofondare in un massacro quotidiano come quello di Gaza, dove nessuno ha un progetto per il dopo: né politica (troppo divisa), né esercito (troppo impreparato su questo fronte).
Anche vincendo su ogni fronte, però, Israele dovrà poi fare i conti con se stesso e far tornare in campo uno spirito cooperativo con vecchi e nuovi partner per un accordo regionale. Comporterebbe la rinuncia al progetto del Grande Israele e il conseguente ritorno dei partiti sionisti religiosi nelle tenebre del kahanismo, che sempre più appare il vero rimosso dello Stato ebraico.
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