Le reazioni più becere all’identificazione di un cittadino italiano di origini africane come presunto assassino di Sharon Verzeni sono, per l’appunto, reazioni. (Dico “presunto”, nonostante la confessione, perché forse dovremmo tutti aspettare il verdetto, anche per possibili rei confessi). Si tratta di reazioni a una precisa condotta comunicativa: la profilazione rozzamente sociologica dei sospetti. Su molti giornali, su molti social, per molte persone quando si parla di qualcuno – specialmente se questo qualcuno è un potenziale sospettato di azioni criminali – non esistono individui singoli.

Esistono membri di gruppi sociologici: africani (cioè immigrati, sottinteso: irregolari; sottinteso: invasori), disoccupati (cioè pigri; sottinteso: mangiapane a ufo), affetti da malattie, meglio se mentali (cioè pazzi furiosi; sottinteso: pericolosi devianti, irrecuperabili e totalmente alieni e diversi da noi lettori), rapper (cioè giovani scapestrati che credono di saper cantare e invece dicono solo parolacce; sottinteso: modelli negativi per i nostri figli). Diciamo che la cronaca nera, certe volte, somiglia alle barzellette che andavano di moda una volta: c’era un italiano, un francese, e così via; e l’italiano era sempre più furbo, più bravo, vittorioso. Questo è avvenuto anche per Moussa Sangare.

Le ragioni di questo modo di comunicare i fatti non sono difficili da capire. La mente umana vuole storie, con particolari vividi. Già ci sono pochi lettori e lettrici di giornali. Una comunicazione algida e cauta non attira né click né acquirenti di copie cartacee. Inoltre, l’inspiegabilità del libero arbitrio ci turba. Se la morte di Verzeni è frutto di un atto immotivato fa ancora più male.

Se possiamo dire, invece, che deriva dalle tendenze omicide – conosciute e spiegabili – di un certo gruppo sociologico, allora almeno abbiamo una spiegazione. Non è molto diverso da quando si attribuiscono disgrazie inspiegabili al malocchio. Non è molto diverso da certa geopolitica d’accatto che vuole spiegare complesse dinamiche internazionali e politiche con la psicologia dei popoli. E non può certo stupire che questo modo di comunicare dia l’assist a chi per mestiere fomenta e rinfocola il razzismo mai sopito di molti, e dopo molti femminicidi compiuti da maschi italiani di buona famiglia non vedeva l’ora che arrivasse l’aguzzino extraterritoriale.

Sangare è consolatorio quanto Turetta era perturbante. Il sociologismo digiuno di sociologia – i dati veri non attestano quel che si vuole fare intendere – lo stereotipo travestito da scienza sociale è un classico del populismo e della demagogia spicciola. La cosa più sorprendente è però quando alla malafede e alle esigenze di bassa bottega si unisce il paralogismo. L’idea che le azioni criminali siano statisticamente più diffuse in certi gruppi sociali, o che derivino da condizioni come la mancata integrazione in un paese in cui non si è nati o non si vive da più generazioni è fattualmente sbagliata, come ho detto.

Ma di solito la si usa come premessa per una visione sociologica della criminalità: i criminali compiono certe azioni per cause sociali, per ragioni che vanno oltre la loro decisione individuale e libera. È sempre un raptus, insomma: non esistono cattivi veri, è tutta colpa della società. Tanto che si tratti del maschio che vuole lavare l’onta del suo onore ferito quanto del marginale che vuole sfogare il suo rancore contro un membro di gruppi socialmente superiori. E i raptus sono condizioni che scusano il delitto. Li si usa, generalmente, come attenuanti.

Quindi Matteo Salvini, quando invoca una pena esemplare, aggiunge alla malafede e al razzismo, e all’ignoranza di tutti i principi di civiltà giuridica, l’errore logico. Se il delitto è stato causato da mancata integrazione, o dalle usanze barbariche di certi popoli, o da qualsiasi altra causa che si possa attribuire non alla volontà individuale del presunto autore, ma alle caratteristiche dei vari gruppi a cui appartiene, allora punire l’individuo non ha molto senso. Bisognerebbe agire sulle cause sociali, semmai.

Quindi, nessuna pena esemplare, ma semmai politiche. E le politiche, ovviamente, possono essere di senso opposto: si può pensare di aiutare l’integrazione, oppure di bloccare lo ius scholae per allontanare presunti assassini dalle nostre terre. Si può pensare di iniziare a occuparsi del disagio psichico e delle sue cause sociali, oppure si può prenderlo per abiezione di gruppi marginali.

Bisognerebbe avere il coraggio di far politica, insomma.

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