- Una misura presentata come a favore dei lavoratori in realtà li danneggerebbe.
- La norma, inserita nella legge di bilancio stabilisce che le mance, entro il limite del 25 per cento del reddito complessivo del lavoratore, vengano tassate con un’aliquota del 5 per cento da un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali e, inoltre, siano esenti dai contributi sociali ed escluse dal calcolo del Tfr.
- Oggi le mance, di fatto, nella quasi totalità non pagano imposte.
La detassazione delle mance ricevute dal personale di alberghi, bar e ristoranti offre spunti per un discorso generale sull’approccio che si sta affermando nei confronti del sistema tributario.
La norma, inserita nella legge di bilancio stabilisce che le mance, entro il limite del 25 per cento del reddito complessivo del lavoratore, vengano tassate con un’aliquota del 5 per cento da un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali e, inoltre, siano esenti dai contributi sociali ed escluse dal calcolo del Tfr.
Oggi le mance, di fatto, nella quasi totalità non pagano imposte. Lo riconosce la stessa relazione tecnica quando afferma che la misura non comporta oneri per il bilancio in quanto riguarda una voce che oggi non dà gettito.
Ci sono eccezioni che riguardano il settore del lusso, come nel caso di un dipendente di un albergo che aveva percepito nel 2007 mance per 83.600 euro e dopo un lungo contenzioso con l’Agenzia delle entrate è stato nel 2021 condannato dalla Corte di cassazione a pagare le relative imposte.
E’ possibile che questa sentenza possa in futuro produrre un’attività di accertamento da parte del fisco quando le somme sono significative. In genere, tuttavia, si tratta di somme modiche che sfuggono a tassazione anche per l’ovvia difficoltà di tracciarle.
Si dirà: bene la norma favorisce l’emersione del sommerso, meglio incassare un’imposta del 5 per cento piuttosto che nulla. In realtà proprio l’impossibilità di tracciamento apre la strada a comportamenti opportunistici da parte dei datori di lavoro.
Sarà possibile “travestire” da mance fino a un quarto dello stipendio con un bel risparmio su imposte, contributi sociali e Tfr. Ne verrebbero danneggiati, oltre all’erario, gli stessi dipendenti che si ritroveranno con una pensione e un Tfr più bassi.
La norma, un po’ ipocritamente, prevede che il lavoratore possa rinunciare per iscritto all’agevolazione ma c’è da avere qualche dubbio sulla sua capacità di resistere a pressioni del datore di lavoro. Per evitare tutto ciò si potrebbe limitare la misura alle sole mance pagate con strumenti elettronici ma questo probabilmente confliggerebbe con l’approccio seguito dal governo sul tema POS e contanti.
La finalità, nelle dichiarazioni della ministra Daniela Santanchè, è quella di premiare «chi svolge il proprio lavoro bene e con merito». Ne siamo certi?
Negli Stati Uniti dove nel settore alberghiero e della ristorazione le mance sono un fenomeno pervasivo e costituiscono una parte importante della retribuzione, l’evidenza è che le mance hanno poco a che fare con la qualità del servizio e tendono piuttosto a premiare elementi come l’aspetto del cameriere.
Nell’insieme quel sistema è dannoso per i lavoratori del settore: un articolo di qualche anno fa dell’Economist rilevava che «gli americani sono intrappolati in un circolo vizioso dove salari bassi giustificano le mance e le mance giustificano i bassi salari» e, alla fine, essendo divenute di fatto obbligatorie, danneggiano gli stessi consumatori.
E’ compito del fisco premiare l’impegno?
Ma c’è un aspetto più importante. Il caso delle mance ha per certi versi la stessa natura del trattamento agevolato garantito ai premi di risultato dei dipendenti del settore privato.
Questi, entro il limite di 3.000 euro, da qualche anno sono tassati con aliquota del 10 per cento (che, solo per il 2023, questa legge di bilancio abbassa al 5 per cento), anche se almeno restano soggetti alla contribuzione per la pensione. Il fisco deve premiare chi si impegna nel proprio lavoro, garantendogli un trattamento agevolato? La risposta secca è no.
Per due motivi. Il primo è l’equità orizzontale. Due individui con la stessa capacità contributiva devono essere trattati allo stesso modo. La capacità contributiva è misurata da un indicatore che è relativamente facile valutare, il reddito effettivo percepito.
Ogni tentativo di premiare aspetti difficili, se non impossibili, da misurare quali l’impegno posto nel lavoro è per forza di cose arbitrario, apre la strada a discussioni infinite (la letteratura teorica sui principi della tassazione ne è ricca) e crea opportunità di elusione dell’imposta, come quella ovvia di etichettare una parte della normale retribuzione come premio di produzione o mancia.
La seconda ragione è cercare di interferire il meno possibile con il funzionamento del mercato, come invece avviene sempre quando proliferano trattamenti speciali basati su considerazioni di dubbia applicabilità.
E’ bene lasciare al mercato il compito di differenziare le retribuzioni premiando aspetti come la competenza e l’impegno, o se si vuole chiamarli così, il merito (lo stesso vale per altri aspetti, come la rischiosità di un dato lavoro). Il fisco deve solo tassare la capacità contributiva a prescindere dalla sua origine.
© Riproduzione riservata