- Sarebbe gravissimo sottovalutare l'impatto popolare del vertice di Ramstein di tre giorni fa.«Dobbiamo muoverci con il ritmo della guerra», ha detto il ministro della Difesa americano Lloyd Austin, come se stesse dirigendo un'orchestrina.
- Ora è diventato difficile sostenere che non stiamo scivolando nel baratro di una guerra larga e lunga, nucleare o meno che sia. Gli esperti la chiamano "escalation", i non esperti sanno che cos'è e ne hanno paura, con il pieno diritto di averla.
- L'orrore della guerra è un'idea popolare e razionale. Ma la guerra la decidono i generali in preda a superstizioni platealmente irrazionali, come si vede dai risultati. Nell'era dei social network questa contraddizione rischia di esplodere
Sarebbe un errore sottovalutare l’impatto popolare del vertice di Ramstein di martedì 26 aprile. Nella più grande base militare americana in Europa, in Germania, 43 paesi (i 30 membri della Nato più 13 sparsi per il mondo) hanno deciso di moltiplicare la fornitura di armi all’Ucraina per aiutarla a battere contro Putin.
«Dobbiamo muoverci con il ritmo della guerra», ha detto il ministro della Difesa americano Lloyd Austin, come se stesse dirigendo un’orchestrina. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini non ha fatto mancare le sue promesse a nome degli italiani. Dopo Ramstein è arduo negare che stiamo scivolando nel baratro di una guerra lunga, larga e imprevedibile.
Gli esperti la chiamano “escalation”, i non esperti ne hanno paura, con il pieno diritto di averla. Il grosso delle cittadine e cittadini europei con diritto di voto non sono in grado di informarsi a fondo sulla crisi ucraina perché ignoranti, perché devono lavorare o non ne hanno voglia. A tutti loro, informati dai tg, dall’autoradio o dal telefonino, la notizia che Ramstein è una svolta pericolosa è arrivata forte e chiara. E la loro opinione, non essendo previsto l’esame di geopolitica per godere dei diritti civili, conta come quella dei generali.
Soprattutto se ci sono da valutare ipotesi di guerra atomica e distruzione del pianeta e della specie. La pericolosità del momento è rappresentata (involontariamente) nei titoli di certi giornali. Sdoganata la parola guerra, l’obiettivo non più è salvare l’Ucraina ma battere Putin. Torna in auge la parola d’ordine “vincere”. Abbiamo un nemico. Ci siamo noi e ci sono loro, gli altri. Coloro che sono privi di studi geopolitici si pongono interrogativi ragionevolissimi a cui sarebbe bello che rispondessero i governi nazionali. Il primo: “noi” vogliamo vincere contro Putin, e se vince lui? E se vinciamo “noi”, i 150 milioni di russi diventano sudditi della Casa Bianca o si riorganizzano per la rivincita? E nel frattempo quanto ci sarà costata la vittoria, e quando costerà all’umanità ricostruire le intere nazioni arate dalle bombe?
L’orrore per la guerra è un valore fondante dell’Europa, nata dall’incontro di Francia e Germania, che si erano scannate letteralmente con la Seconda guerra mondiale, e dell’Italia che aveva combattuto contro entrambe.
La guerra non è solo brutta, è anche stupida. Chi furono i geni geopolitici, prima sovietici e poi americani, che decisero di fare la guerra in Afghanistan? L’orrore della guerra è un’idea popolare e razionale ma i missili li tirano i generali in preda a superstizioni platealmente irrazionali, come si vede dai risultati. Nell’èra dei social network questa contraddizione rischia di esplodere.
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