Se nella storia compare una pistola prima o poi sparerà, ha scritto Anton Cechov. E, se il postulato vale nella finzione letteraria, figurarsi sul campo di battaglia dove le pallottole non sono a salve e non si muore per finta. Un atteggiamento ipocrita fin dall’origine sta accompagnando ormai da trenta mesi il conflitto in Ucraina.

Tutto nasce dall’anodina distinzione tra armi di difesa e di offesa. L’occidente rifornisce gli arsenali di Kiev a patto che la propria produzione non venga usata per attaccare l’aggressore russo. Lo scopo dichiarato è quello di impedire a Vladimir Putin di sostenere che il suo Paese ha come avversario non già l’Ucraina ma la Nato e che di conseguenza si possano allargare i confini bellici sino allo scoppio di una Terza guerra mondiale, stavolta combattuta anche con gli ordigni nucleari.

Il tabù, totale all’inizio, si è via via un po’ affievolito, quando, ad esempio, si è deciso di dotare l’esercito di Volodymyr Zelensky di carri armati e di jet per la copertura aerea. Affievolito, non scomparso del tutto, tra posizioni ondivaghe e differenti tra i vari Paesi alleati di Kiev.

L’Alto rappresentante Ue Josep Borrell invoca la fine delle restrizioni affinché gli ucraini possano combattere senza una mano legata dietro la schiena. La Nato è possibilista. Gli Stati Uniti di Joe Biden, che non correndo per il secondo mandato potrebbe avere meno condizionamenti, tentennano. Gli inglesi sembrano tra i più decisi a cancellare le linee rosse. I francesi avevano ipotizzato addirittura l’invio di truppe di terra, ma il presidente Emmanuel Macron sul tema è silente da giorni, preso com’è da Paralimpiadi e faticosa formazione di un nuovo governo che ancora non vede la luce.

Tra i riluttanti, la Germania con la farsesca spiegazione dei problemi di bilancio che impediscono di affrontare altre spese militari. E l’Italia che con il ministro degli Esteri Antonio Tajani limita al suolo ucraino i nostri aiuti perché «non siamo in guerra contro la Russia». E tuttavia abbiamo contribuito con gli altri partner a dotare gli aggrediti di missili Storm Shadow e di un sistema di artiglieria lanciarazzi multiplo (Mlrs): sarebbero come la pistola di Cechov, insomma.

L’acuirsi di fine estate del conflitto, con l’incursione delle truppe ucraine in territorio russo e la massiccia risposta di Putin con le bombe sui civili e sulle infrastrutture elettriche, rilancia il dilemma. Partendo da una questione che da semantica si tramuta in terribilmente pratica. Che cosa significa esattamente “armi di difesa”? Possono essere considerate tali anche quelle che servirebbero per distruggere sul terreno della Russia le basi di lancio da cui partono gli ordigni provocando stragi tra la popolazione?

Nella riduzione all’essenziale, è decisiva la risposta a questa domanda. Che dovrebbe essere univoca, se non ci fossero motivi di opportunità legati allo spettro che si aggira sui campi di battaglia e non solo circa il possibile uso dell’atomica. Lo zar di Mosca, e soprattutto il suo ventriloquo più feroce, Dmitrij Medvedev, lo hanno evocato in caso di «minaccia esistenziale alla patria», ripiegando talvolta sulla versione edulcorata (!) dell’impiego del nucleare tattico, un ordigno di ridotte dimensioni che provoca morte e distruzione in un raggio limitato. E si sarebbe comunque già aperta la porta dell’Apocalisse.

In definitiva è il confronto asimmetrico tra uno Stato che ha la bomba e uno che non la possiede a incidere, provocando le conseguenti contorsioni lessicali per cui stiamo sì con Kiev ma fino a un certo punto, vorremmo ma non possiamo spingerci oltre per paura del salto nel buio. Così, in un equilibrio precario procede una guerra che doveva essere lampo e che si trascina da due anni e mezzo con costi esorbitanti in vite umane.

Il Cremlino, nonostante le parole reboanti, non si è spinto di fatto a varcare la soglia dell’ineluttabile neanche dopo essere stato attaccato sul proprio territorio e si è limitato (eufemismo) a rispondere secondo i canoni e i criteri di una guerra convenzionale. Nonostante i russi abbiano un arsenale atomico più grande persino degli Stati Uniti, il timore di ricorrere all’arma estrema di Mosca deve essere almeno pari a quello di Washington. Forse il postulato di Cechov vale per tutto meno che per l’atomica.

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