Per raggiungere gli obiettivi delineati dal rapporto Draghi sul futuro della competitività europea sarebbero necessari degli investimenti aggiuntivi annuali tra i 750 e gli 800 miliardi di euro, corrispondenti al 4,4 e/o il 4,7 per cento del Pil dell’Unione del 2023.

Sono risorse enormi e non inferiori a quelle stanziate da Stati Uniti e Cina, sebbene la struttura e il governo europeo faticherebbero non poco a impiegare tutto questo denaro: l’amministrazione è piegata sul controllo della finanza pubblica degli Stati e non ha mai esercitato un qualche potere di intervento diretto nel sistema economico.

Obiettivi e risorse

L’analisi di Draghi, inevitabilmente, passa da una breve rassegna degli obbiettivi e finalità della spesa pubblica. Dobbiamo domandarci se e come il rapporto sia o meno coerente con i principi e le missioni, cioè la necessità di coordinare consumi, investimenti privati, spesa pubblica, cercando di consolidare un retroterra di conoscenze sufficiente per sviluppare un’autonoma capacità innovativa, tale da assicurare una crescita economica sostenibile.

L’intervento pubblico funzionale, per definizione, dovrebbe: (1) individuare la migliore allocazione delle risorse e ripartirle tra privato e pubblico; (2) assicurare che la crescita del Paese (Europa) sia almeno in linea con la crescita demografica e l’innovazione tecnologica; (3) stabilizzare la crescita del reddito del Paese (Europa) e intervenire qualora si manifestasse una crisi, sia essa di eccesso di crescita e sia essa di bassa crescita; (4) realizzare una corretta redistribuzione del reddito per evitare che il reddito e la ricchezza si polarizzino nelle mani di gruppi sociali ristretti.

In particolare, dobbiamo domandarci se il rapporto Draghi permette di migliorare (1) l’efficienza nell’allocazione delle risorse tra pubblico e privato; (2) lo sviluppo economico sostenibile sia nel breve che nel lungo periodo; (3) la stabilità del reddito nazionale; (4) la redistribuzione del reddito.

Debito comune

Nel nuovo scenario geopolitico, dobbiamo anche chiederci se e come la finanza pubblica europea, proporzionale all’emissione di titoli pubblici europei, possa diventare un intervento macroeconomico capace di condizionare l’allocazione delle risorse private, così come diventare un intervento microeconomico che assegni alla pubblica amministrazione la capacità di realizzare beni e servizi tesi a qualificare gli investimenti privati. Il rapporto Draghi ha il merito di riaprire la discussione sugli indirizzi di politica economica e industriale europea.

Se il nuovo Patto di stabilità europeo è una camicia di forza per il bilancio pubblico per la maggior parte dei paesi dell’area euro, l’arretramento dell’economia europea nel consesso internazionale suggerisce una azione collettiva capace di compensare la deflazione sottesa al nuovo Patto. Sebbene lo sforzo finanziario annuo del piano Draghi sia enorme, senza un bilancio pubblico europeo finanziato da entrate fiscali autonome e un apparato adeguato a coordinare e implementare gli investimenti indicati l’esito di questi investimenti potrebbe non essere quello desiderato.

L’assenza di una analisi di impatto degli investimenti delineati, sorprendente se consideriamo che la cornice economica del piano Next Generation Eu, estremamente vincolante in termini di occupazione, crescita e riduzione dei gas serra, è presa come paradigma.

Che cosa manca

In altri termini, gli investimenti destinati all’energia, all’ambiente, all’intelligenza artificiale, alla difesa o all’automotive, come e quanto faranno crescere il valore aggiunto? Quanta occupazione sarebbe creata e/o sostituita? Le importazioni legate a questi nuovi investimenti aumentano o diminuiscono? Inoltre, il posizionamento del tessuto economico per settore (Nace) come si colloca nella catena del valore internazionale?

Draghi ha sostanzialmente delineato un orizzonte, che necessita di ulteriori studi di fattibilità e statistica. Quindi, il rapporto Draghi è un catalogo di buone intenzioni che necessitano di ulteriori sforzi conoscitivi. Si potrebbe anche azzardare che Draghi conosca molto bene le debolezze dei settori economici europei, ma abbia sorvolato per evitare i classici conflitti di potere interni a tutte le categorie sociali.

Avrebbe anche potuto delineare una iniziativa pubblica nei beni di merito, così come la nascita di soggetti industriali pubblico-privati nei settori in cui si osserva una certa debolezza e nei settori che si trovano alla frontiera della ricerca.

Il piano Draghi è una sorta di libro bianco, meno impegnativo di quello fatto da Delors, che potrebbe aprire una discussione seria. In particolare, occorre domandarsi: chi e quale sarebbe il soggetto che più e meglio di altri dovrebbe guidare la lunga e profonda transizione economica europea?

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