Nei mesi scorsi l’opposizione è cresciuta, nel paese, come confermano fra l’altro il successo della raccolta firme per i referendum e le elezioni europee e amministrative. Sulla politica interna, i partiti alternativi alle destre cominciano a trovare coesione e forza, mentre in politica estera, in un contesto terribile e incerto, Meloni ha inanellato una sequela di errori e insuccessi purtroppo, per l’Italia, senza precedenti. Sulla strada dell’alternativa si erge un rischio, però, piuttosto serio: che la discussione si avviti su singoli nomi, molto divisivi (Renzi), finendo di nuovo in veti e litigi; rischiando così perdite a sinistra e scoraggiando gli astenuti dal tornare alle urne (il conto dei voti, alla fine, potrebbe anche essere negativo).

Come evitare questo rischio? In due modi. Primo, occorre guardare alle idee e ai temi concreti. Sui diritti civili e le libertà personali (a partire dalla gravissima situazione delle carceri, su cui meritoriamente insistono i Radicali), su una possibile iniziativa parlamentare sullo ius soli (preferibile al referendum), sui diritti delle persone lgbtq+ e una legge contro l’omotransfobia, è possibile un’intesa fra tutte le forze di opposizione; ma vi è sintonia anche su alcune liberalizzazioni anti-corporative (su tutte, i balneari e i taxisti), così come un ampio accordo è stato costruito sul salario minimo (vi ha aderito anche Calenda), sul no all’autonomia differenziata (vi hanno aderito i renziani) e ancora, con pochissimi distinguo, sul rafforzamento della sanità pubblica, dell’istruzione e della ricerca.

A dire il vero si potrebbe essere anche più ambiziosi. Parlare in modo esplicito a quegli imprenditori che scelgono di competere sull’innovazione e la qualità, e non sui bassi salari o sui favori fiscali; impegnandosi per garantire loro un’amministrazione più forte e più moderna, che sia in grado di fornire quei beni pubblici essenziali a ogni economia avanzata: rispetto delle regole, infrastrutture, capacità di progettazione (ad esempio nel digitale o nella transizione energetica), un welfare che favorisca l’inclusione ed eviti l’emarginazione di persone e competenze, un fisco che non premi le rendite, incentivi affinché le aziende crescano e innovino. En passant: è l’opposto di quello che fa l’attuale governo, ad esempio con il regime forfettario per le partite Iva che favorisce i piccoli e l’evasione, o con la difesa delle corporazioni, o con il protezionismo nell’agro-alimentare.

Questa però, che compete un po’ a tutte le forze alternative alle destre, è solo una parte della strada da fare. C’è un ultimo tratto, decisivo, che può essere percorso solo dalle attuali formazioni centriste. È il più difficile: occorre riconoscere che gli attuali leader di queste forze, Renzi in primis, costituiscono un ostacolo per costruire una coalizione alternativa alle destre (tanto per la coesione e affidabilità, quanto per la sua forza elettorale): per quello che, inevitabilmente, giusta o sbagliata che sia questa immagine, Renzi rappresenta per la stragrande maggioranza degli italiani. Lo prova da ultimo anche la lista Stati Uniti d’Europa, partita molto bene nei sondaggi ma via via scesa, fin sotto la soglia di sbarramento, a mano a mano che si palesava il ruolo centrale di Renzi.

Per il bene della coalizione e probabilmente della sua stessa area politica, Renzi stesso dovrebbe capire che è ora di accettare un ruolo di secondo piano. Lo stesso forse dovrebbe fare Calenda, anche se il suo è un caso meno grave (agli occhi degli italiani, sempre). L’area del «centro che guarda a sinistra» dovrebbe essere rappresentata da figure nuove, non compromesse con gli errori e i personalismi del passato, non invise al resto degli alleati e ai loro elettori.

Chi? Spetta proprio a quell’area deciderlo, magari con procedure trasparenti e democratiche. Come ha fatto il PD, a pensarci, mettendosi in discussione profondamente, come ogni forza politica che si rispetti dovrebbe fare dopo una grave sconfitta; e riuscendo così a rilanciarsi.

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