“Politica” è una delle parole più ricorrenti nei commenti alla vicenda Open Arms. Ma con il richiamo alla politica si mira a distogliere l’attenzione da alcuni profili giuridici della vicenda, e soprattutto dal fatto che anche un ministro è sottoposto al diritto
Politica è una delle parole più ricorrenti nei commenti al caso Open Arms, specie dopo che la procura di Palermo ha chiesto sei anni di reclusione per Matteo Salvini. Un’azione “politica” non può essere sottoposta al vaglio della magistratura, la scelta di mandare Salvini nelle aule giudiziarie è solo “politica”, il processo è “politico”.
L’impressione è che qualificare come “politici” certi profili della vicenda miri a distogliere l’attenzione da quelli più giuridici, e soprattutto dal fatto che anche un ministro deve rispettare i paletti del diritto. Chi riveste questa carica non è al di sopra della legge. Anzi, lo è solo nelle dittature.
Processo politico
Affinché il potere giudiziario possa procedere in caso di presunti reati ministeriali, è necessaria l’autorizzazione della Camera di appartenenza del ministro (art. 96, Cost.). È vero che è la politica, cioè il parlamento, a decidere se mandarlo a processo. Ma è la legge a definire i criteri da seguire nella decisione. Camera o Senato possono negare l’autorizzazione se reputano «che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo» (legge costituzionale n. 1/1989).
In altre parole, l’atto di un ministro sfugge al sindacato della magistratura solo se rientra nell’area dell’azione di governo, quindi non in quella personale o partitica, e se l’interesse perseguito è costituzionalmente rilevante o prevalente su quello sacrificato da tale atto.
Azione politica e interesse tutelato
Circa il primo profilo, il divieto di sbarco per la Open Arms era un’azione di governo? Il 14 agosto 2019, dopo la sospensione da parte del Tar del decreto di divieto adottato il 1° agosto, la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, rifiutò di cofirmare un nuovo decreto, e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, invitò Salvini ad «adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori». Difficile sostenere che l’azione di Salvini fosse condivisa dal governo, come nel caso della nave Diciotti, e non invece personale/partitica del ministro.
Quanto al secondo profilo, l’interesse “costituzionalmente rilevante” perseguito da Salvini sarebbe stato la difesa dei confini della Patria in base all’art. 52 della Costituzione, come egli stesso ha detto. Ma questa disposizione riguarda aggressioni da parte di chi vuole modificare i confini del territorio nazionale con l’uso della violenza. Non proprio il caso delle 147 persone disarmate sulla Open Arms. Non c’erano indizi di presenza di terroristi a bordo, né emersero dopo lo sbarco.
Quanto alla “preminenza” dell’interesse pubblico perseguito dall’ex vertice del Viminale, la difesa dei confini nazionali, rispetto a quello sacrificato, la messa in sicurezza delle persone sulla Open Arms, norme internazionali e nazionali dispongono che la vita umana prevalga su altri diritti. In ogni caso, la “difesa” deve sempre essere proporzionata alla presunta “offesa”: per tutelare l’Italia non da un’aggressione armata, ma da 147 migranti stremati dalla traversata in mare, non si potevano e non si dovevano ledere diritti umani. Lo dispone il diritto, qualunque cosa ne pensi la politica.
Le obiezioni
Per sostenere la valenza politica del processo a Salvini si afferma, tra le altre cose, che l’ex vertice del Viminale, con il divieto di entrata nelle acque territoriali alla Open Arms, stesse impedendo la commissione di un illecito, cioè l’ingresso irregolare di stranieri.
Si tratta di una linea non proprio difensiva, poiché fa emergere che un illecito l’avrebbe in realtà commesso Salvini. Infatti, il respingimento in massa di persone che provano a varcare i confini, senza aver esaminato le situazioni giuridiche individuali, viola il divieto di “non-refoulement” sancito dalla Convenzione di Ginevra, e non solo.
C’è anche chi dice che si tratti di un processo politico perché i giudici, quando reputino che una norma nazionale sia incostituzionale per contrasto con convenzioni internazionali, dovrebbero sollevare la questione di legittimità innanzi alla Consulta, e non sanzionare chi la applica. Il ragionamento presenta un vizio di fondo.
La norma sulla chiusura dei porti non è incostituzionale, ma la chiusura è esclusa dalle convenzioni in ipotesi di salvataggio di naufraghi. Quindi, tale norma può essere applicata solo nel rispetto dei limiti posti dalle leggi internazionali, cosa che Salvini non avrebbe fatto, e per questo ora è a processo. Altro che “politica”: è diritto.
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