Il ministro Orazio Schillaci ha annunciato una serie di misure per affrontare il problema delle liste di attesa e la scarsità del personale medico. Le bozze del decreto che circolano riflettono una impostazione destinata a marginalizzare ancora di più il ruolo del servizio pubblico a favore dei privati.

Il modello per risolvere il problema delle liste di attesa, come illustrato dal ministro stesso, è unificare in un’unica agenda gestita dai Cup regionali le prestazioni pubbliche e quelle del privato convenzionato, come se fossero perfettamente equipollenti (art. 9, comma 1). Idea che poggia sul presupposto che “il privato accreditato sia pubblico” (Orazio Schillaci, Festival dell’Economia di Trento, 23 maggio 2024). Il privato accreditato purtroppo di pubblico ha soltanto i soldi dei contribuenti, e segue lecite logiche di profitto. Infatti le tariffe di una prestazione privata sono più alte rispetto a quelle erogate dal Servizio sanitario nazionale, tanto è vero che è previsto un aumento del tetto della spesa per il privato convenzionato: quindi più risorse ai privati anziché destinarle all’ammodernamento delle tecnologie del pubblico.

A questo proposito non può essere taciuto che il Pnrr prevedeva un finanziamento di circa cinque miliardi per l’aggiornamento tecnologico e digitale del Servizio sanitario nazionale per rimpiazzare il 30 per cento della strumentazione diagnostica, per la realizzazione del fascicolo sanitario nazionale e per creare l’infrastruttura di telemedicina e l’intelligenza artificiale. Azioni che avrebbero avuto un immediato e concreto impatto sulle liste di attesa.

Il governo ha invece chiesto e ottenuto dalla Commissione europea la possibilità di procrastinare al 2026 queste spese, e quindi assestato un duro colpo alla capacità del servizio pubblico di affrontare il problema delle liste di attesa, lasciando campo libero al privato.

L’Italia tra i paesi Ocse è seconda solo agli Stati Uniti in termini di percentuale del privato nella spesa sanitaria. La causa va ricercata negli elevatissimi margini di profitto di queste imprese private, che possono raggiungere percentuali superiori al 15 per cento. La profittabilità della sanità privata convenzionata è determinata da tre fattori: trasferimento di rischi e costi dal privato al pubblico; selezione delle prestazioni erogate; eliminazione del rischio di impresa.

Privati senza rischi

In Italia i letti privati sono circa quarantamila, ma solo il 5 per cento ha la copertura di medicina di urgenza. Solo duemila letti (per la maggior parte in Lombardia) si trovano in ospedali che hanno un reparto di pronto soccorso e un reparto di rianimazione. Le dita di due mani sarebbero sufficienti per enumerare quante strutture private convenzionate abbiano reparti di traumatologia, emo-trasfusionali, neonatologia, rianimazione neonatale o neurochirurgia. I privati convenzionati non eseguono tutte le prestazioni, bensì hanno la possibilità di scegliere gli interventi rischiosi e meno impegnativi.

I privati convenzionati eseguono la maggior parte delle protesi, sostituzioni valvolari e stent poiché queste sono le prestazioni che hanno il più alto indice di redditività. In Italia abbiamo anche realizzato per i privati convenzionati il sogno di qualsiasi imprenditore: eliminare il rischio di impresa. A inizio anno, contrariamente a qualsiasi altra impresa, i nostri privati convenzionati già sanno quali saranno i ricavi minimi per l’anno successivo. Le nostre regioni infatti garantiscono a ognuno di loro le prestazioni acquisto almeno pari come valore a quelle dell’anno precedente.

I problemi del nostro servizio sanitario originano da lontano, e le misure del ministro Schillaci avranno lo stesso effetto di un pannicello caldo per un malato grave. Ipotizzare che un aumento limitato delle risorse a privati e un falso sblocco delle assunzioni si trasferisca in un proporzionale e tempestivo miglioramento delle prestazioni per i cittadini, lo dico con franchezza, è ingenuo. Il livello delle prestazioni erogate dal Ssn dipende, oltre che dalle risorse, da fattori altrettanto importanti, che includono: aggiornamento tecnologico; la tempestiva adozione da parte del Ssn delle innovazioni nel campo della diagnostica e della terapia, che ha un impatto sulla qualità e aspettativa di vita dei cittadini.

Troppa politica nella sanità

Il mancato aggiornamento dei nuovi Lea (livelli essenziali di assistenza) a partire dal 2017 ha di fatto impedito e ritardato l’erogazione di servizi innovativi frutto della ricerca e innovazione messi a punto negli ultimi anni: efficienza amministrativa e qualità della dirigenza; la legge Bindi ha trasformato le unità sanitarie locali in “aziende” che gestiscono in proprio risorse e bilanci. Queste “aziende” negli anni si sono progressivamente ingigantite inglobando presidi e servizi sanitari che erano di pertinenza di differenti strutture autonome.

Oggi vi sono aziende sanitarie cui fanno capo un milione e mezzo di cittadini. Ospedali, punti nascita e consultori vengono chiusi o ridimensionati in continuazione senza consultare cittadini e amministratori, al solo scopo di far quadrare i bilanci. Questa espansione non è stata accompagnata da un adeguamento del modello gestionale. Il direttore generale delle aziende sanitarie è scelto e nominato dal presidente della regione, e a cascata sempre in capo al presidente della regione il direttore amministrativo, il direttore sanitario e il direttore sociosanitario.

La sanità rappresenta circa l’80 per cento del bilancio di una regione e viene utilizzata in modo spregiudicato come una leva di potere e di influenze. In capo al presidente della regione si accumula il potere legislativo, di indirizzo, di programmazione e di controllo. Nel caso della sanità il presidente della regione è anche responsabile della gestione, generando quindi una situazione in cui il controllore (il presidente di regione) e il controllato (i dirigenti) hanno interessi allineati. Viene a mancare la salutare dinamica tra controllore e controllato, a spese della trasparenza. Molte aziende sanitarie sono amministrate da manager con poca esperienza, come centri di potere clientelare distanti dalle esigenze dei cittadini. Dare più risorse a queste aziende sanitarie senza ripensare al modello organizzativo e gestionale significa sprecarle.

Stipendi più bassi d’Europa

A tutto questo si aggiunge il tema della valorizzazione del personale. I nostri medici e infermieri sono tra i meno pagati in Europa. Annunciare un vasto piano di assunzioni di medici come proposto nel disegno di legge Schillaci senza prevedere un adeguamento di salari dei medici e degli infermieri significa essere destinati a fallire. Oggi mancano chirurghi generali, patologi, anestesisti, chimici clinici e radiologi perché gli stipendi sono troppo bassi e non consentono di svolgere attività privata. La situazione per quanto riguarda gli infermieri è ancora più drammatica. I nostri infermieri sono persone altamente qualificate con laurea di secondo livello che hanno uno stipendio di ingresso intorno ai 1.300 euro al mese.

Il decreto, invece di prevedere un aumento della retribuzione del personale sanitario (medici e infermieri) impegnato nel pubblico, incrementa la tariffa oraria per coloro che fanno prestazioni aggiuntive in regime privato (intramoenia (art. 12). Inoltre (art. 16): il Ssn può «reclutare il personale del comparto e della dirigenza medica e sanitaria nonché delle professioni sanitarie attraverso forme di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, in deroga al decreto che regola le norme sulle assunzioni e sulla gestione del personale nella Pa» (via libera ai gettonisti).

È diventato improcrastinabile elaborare un progetto organico da contrapporre a questo modello. La difesa del servizio sanitario pubblico si realizza assicurando maggiori risorse per la valorizzazione del personale, riequilibrando il rapporto pubblico-privato, promuovendo l’aggiornamento tecnologico, intervenendo sul modello di gestione per ridimensionare il ruolo della politica nella gestione diretta dei nostri presidi sanitari.

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