Complice l’emotività suscitata dagli eventi degli ultimi giorni, mi pare si stia consolidando una visione unilaterale del conflitto mediorientale che, come sempre quando si misconoscono le ragioni di una parte, non aiuta a diminuire la pressione sull’intera area, favorendo la diffusione di linee di propaganda che mirano esplicitamente all’estensione della guerra anche alle nostre latitudini.

L’errore più frequente è, a mio giudizio, una redutio ad Bibi. Eppure non mi pare difficile immedesimarsi nel punto di vista israeliano: basta spostare un po’ più indietro l’origine delle ostilità. Piaccia o meno, questa non è la guerra di Benjamin Netanyahu; il sentimento dell’ineluttabilità dello scontro è del tutto trasversale in Israele.

È convinzione diffusa che la guerra l’abbiano iniziata gli altri e che ora si stia solo reagendo ad un attacco, tentando di estirpare una minaccia con cui è impossibile convivere. Anche le vicende che hanno coinvolto Unifil, segnate dagli inauditi attacchi al contingente di interposizione che appaiono anche un suicidio diplomatico, non suscitano particolare sdegno perché ritenuti incidenti nel quadro di una missione, il cui certificato fallimento non può certo scaricarsi sulla sicurezza del Nord di Israele, da tempo landa desolata con circa 80.000 profughi, che non hanno suscitato lo stesso sdegno degli attuali profughi libanesi nonostante siano state bombardate anche le loro case e presi di mira obiettivi civili a più non posso.

La fine dell’Onu, dichiarata anche rimproverando ad Israele una sorta di irriconoscenza per l’istituzione che lo ha fatto nascere come se il conflitto aperto con l’Assemblea generale non fosse pluridecennale e abbia raggiunto punte di attrito del tutto paragonabili al discorso di Netanyahu di tre settimane fa (si veda la risposta di Haim Herzog alla risoluzione 3379 del 1975, che equiparava il sionismo ad una forma di razzismo), è condivisa dagli israeliani, ma va spostata indietro, quando il contingente Unifil non ha impedito ad Hezbollah di violare platealmente la risoluzione 1701, di armarsi e di attaccare.

Articoli che recitavano il de profundis del diritto internazionale? Zero. La convinzione israeliana si rafforza man mano che vengono diffuse le immagini dei tunnel a poche decine di metri dalle postazioni del contingente internazionale. Argomenti forti, che chiedono risposta.

La parole di Yair Golan

Se c’è convergenza sulla necessità della guerra, c’è, però, totale divisione sul dopo. Per una parte del paese rappresentata dall’esercito, dall’intelligence e dalla presidenza della repubblica la guerra deve essere finalizzata alla riscrittura del Medio Oriente attraverso un accordo regionale con vecchi e nuovi partner; per quella rappresentata dal governo si tratta di perseguire il progetto suprematista del Grande Israele.

Divisione plastica anche in queste ore, dove, mentre Netanyahu continua col suo linguaggio da gradasso, l’esercito ha ripreso a trattare per la sorte degli ostaggi e le persone sono tronate in piazza chiedendo che la morte di Sinwar sia l’occasione per un cessate il fuoco. Ciò che fa più emergere la frattura israeliana sono, però, le parole del nuovo federatore della sinistra Yair Golan.

In un’intervista a Le Point, Golan ha così marcato l’abisso che lo separa dalle ambizioni dell’attuale governo. Parole importantissime, che per la prima volta mostrano il coraggio di un progetto alternativo senza temere l’accusa di traditore della patria. A mio giudizio, una sinistra consapevole dovrebbe armarsi di spirito analitico e sostenere le forze che si oppongono a questo ossimoro chiamato internazionale sovranista, senza cedere a derive ideologiche totalmente contraddittorie.

Queste forze esistono anche in Israele, ma pure loro chiedono garanzie di sicurezza a cui si deve risposta: «Noi abbiamo bisogno di un’alleanza regionale e mondiale contro l’Iran e per questo dobbiamo mostrare di avere un approccio positivo alla questione palestinese. Vuol dire intraprendere una separazione civile coi palestinesi, che ci porti ad una soluzione a due Stati (…) Mi spiego: la soluzione a due Stati è tuttora valida e esistente. Io non dico che sarà realizzata domani o dopodomani, ma esiste. E noi non possiamo fare compromessi sulla nostra sicurezza (…) L’Autorità palestinese dovrà comprendere una cosa molto semplice: senza sicurezza per Israele non ci sarà l’indipendenza palestinese. La separazione civile che io propongo permette di andare in questa direzione (…) Il nostro obiettivo è impedire l’annessione. Il nostro obiettivo sono i due stati, per il bene dello stato di Israele».

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