L’antinomia tra sacralità della vita e dignità della vita non esiste in re nell’ontologia dell’essere sociale della nostra cultura, sia antropologicamente, che nella teologia della vita (quella cristiana) che questa cultura storicamente ha espresso. E quindi è bene che questi due non-presupposti non inquinino il dibattito nel percorso parlamentare della legge
L’equivalenza sul piano morale tra suicidio assistito (…) e atto eutanasico compiuto da un sanitario nelle medesime condizioni ove la patologia del malato lo richieda è il dilemma che ogni auspicio a tradurre in diritto positivo la sentenza della Corte si trova davanti.
(….) Fermo restando l’assunto che lo spazio etico non è lo spazio giuridico, sono noti i valori in conflitto: disponibilità o indisponibilità della vita, anche la “mia”, alla mia autodeterminazione individuale? Indisponibilità che da nessuno può essere manomessa, in nome della sua dignità percepita; neanche da me che quella dignità per me più non riconosco. E rivendico il diritto di potervi decidere su, e di essere aiutato, se non posso da me, a porvi fine, senza pregiudizio penale per chi mi aiuti.
(…) Ora per evitare che questo dilemma si traduca in un’opposizione non mediabile né nella concreta vita etica (dove in verità, magari in silentio et spe, è da sempre mediato) né in diritto (che è tema proprio a quali che siano “disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”), si tratta di argomentare (…) a) il non presupposto teologico-religioso (lo specifico cristiano della nostra cultura) della sacralità della vita, come sua intangibilità dal principio concorrente, sia nel senso che concorre a come la vita vive, sia nel senso che vi si oppone, della dignità della vita come sua autodeterminazione in capo dall’individuo; b) il non presupposto laico, o latamente antropologico, che la vita individuale sia solo in capo all’autodeterminazione degli individui, negando la pertinenza della vita individuale a qualcosa (e tanto più a Qualcuno) che la trascende, che vada al di là di sé stessa o la comprenda, e che quindi abbia de facto e de jure titolarità a prendere parola sulla mia vita.
Vale a dire che l’antinomia tra sacralità della vita e dignità della vita non esiste in re nell’ontologia dell’essere sociale della nostra cultura, sia antropologicamente, che nella teologia della vita (quella cristiana) che questa cultura storicamente ha espresso. E quindi è bene che questi due non-presupposti non inquinino il dibattito nel percorso parlamentare della legge.
Essere o con-essere
Il primo non-presupposto, la nuda e cruda titolarità (ontologica, esistenziale, morale) solo in capo a me stesso della mia vita, è un’evidenza della ragione osservativa che solo la distorsione ottica dell’individualismo proprietario (presunto) di sé della stagione moderna dell’io ridotto al suo libitum e al suo desiderio può non vedere: che cioè l’esserci, che è il nostro, il nostro stare al mondo, è sempre anche un con-essere (e un in-essere nella natura e nella storia). (…)
Un’evidenza (…) per altro confermata proprio nell’aiuto che si richiede ad altro (l’istituzione sanitaria, cioè la società) e a un altro (la mano prossima della comunità di chi mi sta vicino e mi aiuta a morire) per affermare la scelta di dignità sulla propria vita, che è il diritto a sancirsi di ogni legislazione sulla morte volontaria.
La sacralità della vita
Il secondo non-presupposto teologico-religioso, una sacralità della vita sottratta a qualsiasi sua determina in base a un giudizio sulla sua dignità, non sta nelle sue fonti, cioè nella prassi istituente la religione della vita del suo fondatore, che non considerò “tesoro geloso” la sua vita, la sua “natura divina”, tanto da non offrirla per la salvezza degli uomini in obbedienza libera alla volontà del Padre che lo aveva mandato.
Che è quanto Paolo ci dice in Filippesi, 2, 5-8, confermando il rifiuto di Cristo, all’invito di Pietro come satanico, di sottrarsi alla Croce (Marco, 29-34). (…) Qualcosa di molto più vicino al Critone di Socrate (spesso ridotto a stereotipo dell’affidamento illuministico rischiarato dalla ragione delle proprie scelte di vita circa la propria dignità sostenibile) di quanto si pensi.
Se qualcosa questo doppio presupposto di non contraddittorietà esistenziale tra disponibilità e non disponibilità della vita in capo a sé stessi nella privatezza in ultima istanza per cosa morire e per come morire, che poi è la decisione su come indossare la vita che non è mai solo “mia”, può insegnarci è che alla vita deve sempre essere possibile, quando la sofferenza non ha più senso, che possa prendere con serenità la porta della casa del Padre o semplicemente della pace. E che qualcuno quella porta aiuti a schiudersi. (…) Ma proprio in relazione alla pietas, come l’orizzonte di senso di qualsiasi discorso sul fine vita, solo una società non eutanasica può moralmente permettersi una legislazione sul fine vita e in materia di morte volontaria.
Che cioè non nella legge, che va da sé, non può esserci nessuna sia pur sottesa “istigazione al suicidio”, ma che nella società che quella legge emana questa istigazione non ci sia, nella forma subdola e diffusa dell’abbandono di una persona alla sua sofferenza, senza alcuna via di uscita negli altri e presso gli altri, per “rimanere” con loro, nella loro “cura”.
Se si vuole un esempio, una società dove, alle strette di sé che sono anche sempre quelle almeno dei propri cari, qualcuno debba decidere se incontrare, fin che può, negli occhi il loro amore, o per loro debba togliere il “disturbo”, il “peso” che rappresenta.(…)
Un principio unico
Credo che queste argomentazioni “di principio” possano sostenere un’equivalenza sul piano morale tra Sma e atto eutanasico compiuto da un sanitario nelle medesime condizioni in cui fosse ammissibile il Sma, ove la patologia del malato lo richieda.
E quindi la traduzione in diritto positivo di questa equivalenza come non perseguibilità penale di entrambe le modalità di “aiutare” a morire chi dalla vita per sua insostenibilità voglia congedarsi. Anche se quest’equivalenza può essere sentita, più che ragionata, come moralmente faticosa, non riesco a vedere differenze sostanziali logico-operative tra il premere da sé il “bottone” della propria morte, o farlo premere da altri, in contesti fortemente garantiti e da garantire.
Tanto più in presenza di una previsione concessa normativamente di intervento medico “eutanasico” in caso di inceppo della procedura suicidaria “in proprio” (ma che c’è di “in proprio”, poi, in un’azione che ha bisogno di una complessa ad-sistenza, cioè presenza operativa, di soggetti singoli e istituzionali per andare ad effetto?).
Mi sembra che qui siamo ancora nella tradizione morale della richiesta del “colpo di grazia”, dove il campo di battaglia è il letto del paziente. C’è bisogno di aspettare per concederglielo che i suoi visceri se li sia esposti da solo per un inghippo della procedura assistita? Non glielo si può evitare? (…) Nella morte volontaria di una vita che chiede – perché “non ce la fa più” a sostenere la sua sofferenza – di essere assistita, di avere qualcuno accanto, suicidio medicalmente assistito ed eutanasia, cioè la mano di un altro che ti sostituisce nel tuo ultimo gesto, non sono un’antinomia, non obbediscono a due distinti e contraddittori principi, ma ad un unico principio: la pietà, e come tali il diritto positivo dovrebbe inquadrarli.
Dialogo sul suicidio medicalmente assistito, edizioni Cnr, con un’introduzione di Giuliano Amato e a cura di Cinzia Caporale e Laura Palazzani (anche open access), è l’autorevole contributo sul tema della Consulta scientifica del Cortile dei Gentili, mentre sono in corso le audizioni al Senato. Riproduciamo ampi stralci del contributo di Eugenio Mazzarella, sul punto più controverso del dibattito: “La morte volontaria medicalmente assistita tra suicidio ed eutanasia: una falsa antinomia”.
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