Quando nel 1926 Umberto Terracini varca la soglia del carcere ha appena compiuto trentuno anni, vi uscirà che di anni ne ha quarantotto. Il cuore della vita del presidente dell’Assemblea Costituente trascorre dunque tra le pareti anguste delle case circondariali cui è costretto in conseguenza della condanna a 22 anni, 9 mesi e 5 giorni di carcere.

La sua, infatti, è la pena più pesante comminata dal Tribunale speciale del regime fascista, a esito del cosiddetto «processone». Pur significativo, questo tratto biografico poco restituisce del rilievo e dell’arditezza di questa personalità del Novecento.

Contro il patto Molotov-Ribbentrop

Il Partito Comunista Terracini lo avevo fondato, da quel partito per un biennio fu allontanato. Eppure, contrasti, dissensi, critiche e distinguo, di cui è costellata la sua intera parabola da dirigente politico (salienti quelli sulla «svolta» del 1930, il patto Molotov-Ribbentrop, la nascita del Cominform, la guerra dei Sei giorni, il compromesso storico, il rapimento Moro), ebbero un solo limite.

«Per realizzare anche solo in parte il mio pensiero, per dargli concretezza – ebbe a dire nel 1978, devo innestarlo in quello, operante, di una grande forza della cui validità, alla distanza, non ho mai dubitato e non dubito».

La pena altrimenti è presto detta: la condanna delle proprie idee «alla sterilità, all’impotenza». In questa chiave – «non voglio essere un pensatore solitario, non amo il destino delle anime belle» – fu sempre Terracini a identificare la «chiave di comprensione» della sua stessa condotta storico-politica.

Su questa figura disponiamo finalmente di uno studio organico: Claudio Rabaglino, Umberto Terracini. Un comunista solitario (Donzelli, 2024). La prosa accessibile, il linguaggio piano e la propensione divulgativa, senza far torto al rigore metodologico, rendono il testo fruibile anche a platee non specialistiche. E ciò è un bene, in tempi di «chiesuole» culturali.

Lo scontro con Lenin

L’incedere politico di Terracini che si ricava è tortuoso, imprevedibile e talvolta stravagante. Nelle pieghe della vicenda italiana e di quella del movimento operaio internazionale, il nostro tese a distinguersi. Ma sbagliano quanti, col senno di poi, nell’allontanamento dal Partito, nella spiccata sensibilità per i diritti civili o nell’attenzione alle ragioni dello stato di Israele, intravedono in questa figura un lib-lab ante-litteram.

Le posizioni di Terracini, ha già notato Paolo Spriano, sfuggivano «ad una catalogazione, di destra o di sinistra». Fatto salvo l’estremismo massimalista agli albori della vicenda comunista italiana, che pure gli valse una personale e puntuta reprimenda pubblica di Lenin in persona, una schematica riduzione delle sue posizioni ostacola ogni comprensione. Nel dirigente politico avveduto, peraltro, volendo azzardare un’analisi di un fenomeno altrimenti oscuro, il movimento compensativo-correttivo è tipico, rientra cioè nella fisiologia di un corpo vivo qual è il partito.

«La propensione a manifestare una forma di distacco rispetto agli orientamenti espressi dalla maggioranza», secondo Rabaglino, potrebbe ricondursi alla «sua identità ebraica, di appartenente quindi a una minoranza, in quanto tale portatore di un punto di vista perennemente “altro”, in costante dialettica con le opinioni prevalenti».

Per Terracini, come ruvidamente puntualizzato a Ruggero Grieco nell’annus horribilis 1938, bisogna distinguere (appunto): è la «critica preconcetta, la critica avventata» a disorganizzare. Quando essa invece è costruttiva «non solo non disorganizza» ma consolida il partito.

Ma non era un eretico

Ha ragione allora l’autore a definirlo «un comunista solitario». A dispetto, infatti, di un certo conformismo intellettuale attorno alla vicenda di taluni comunisti italiani, come appunto Terracini, Rabaglino non ricorre alla categoria di eretico. Un passe-partout analitico del quale è tempo di chiedere la moratoria.

Nel dividere il Pci in presunti eretici e ortodossi, sulla scorta di un manicheismo posticcio e tartufesco, tale impostazione adultera una vicenda molto intricata, impedendo di storicizzarla e comprenderla. Nell’assumere che l’eresia sia sempre e di per sé giusta e autentica, che non ve siano invece molteplici e secondo gradi di contraddizione diversi, si finisce peraltro per degradare nell’irrazionalismo politico. Terreno di passioni e meschinità, non invece dominio dei lumi.

Studiare la vicenda biografica di Terracini è, dunque, esercizio ricostituente. Il suo contributo, ha notato Guido Quazza, si è mosso «costantemente, con una coerenza rarissima, sul doppio polo, considerato come unità dialettica, dell’attenzione al movimento e della fedeltà al partito, della considerazione del movimento come fine, della fedeltà al partito come mezzo: e tenendo sempre per fermo, con inesausta originalità, che mezzo e fine non possono, in nessun momento, essere separati se si vuole avanzare verso una società più libera e più giusta».


*L’autore è dottore di ricerca in Storia dell'età contemporanea presso l’Università di Bologna

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