«L’Italia ci pareva un paese provinciale, piccolo, meschino poco tendente alla potenza. E invece la guerra fu un momento dell’Italia. Vi assicuro che era bellissimo». Correva l’anno 1968 quando Giuseppe Prezzolini scriveva con rammarico quanto esaltante fosse stato per la sua generazione l’essere stati sedotti dal mito rigenerativo del sangue nelle trincee.

Nazionalista convinto, tra i più accaniti sostenitori delle piazze interventiste del 1915, il fondatore della Voce aveva fortemente creduto nella guerra come «sola igiene del mondo», per poi cedere al culto di una giovinezza fin troppo spavalda nell’uso della violenza squadrista, mito immortale di una rivoluzione fascista, che alla resa dei conti era stata soltanto un’abile messa in scena.

Persino negli anni da direttore alla Casa italiana della Columbia University, non aveva esitato a diffondere un’immagine positiva della patria del duce. Ma il suo Giornalino non aveva infiammato molto i cuori degli studenti americani, fin troppo distanti dalle sorti dell’Italia di regime.

Decisamente siamo un paese che soffre di clamorosi processi di rimozione collettiva, la politica si diverte ad abusare della storia in maniera a dir poco grottesca, ribaltandola e riscrivendola. Avevamo iniziato con lo squadrista Italo Foschi, celebrato con un francobollo da Poste italiane (nell’anno del centenario della morte di Giacomo Matteotti), fra gli organizzatori dell’assalto alla casa dell’ex presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, fanatico dell’odio, che abbandonata la trincea aveva cercato un nuovo nemico “interno” (da chiamare socialista traditore o disfattista).

Uso e abuso del passato

Ma vien da chiedersi: che cos’è esattamente che dovremmo celebrare quando ricordiamo i fautori del nazionalismo? Che senso hanno queste operazioni di uso e abuso del passato? Nulla di strano, si dirà. In fondo siamo pur sempre il paese in cui le buone penne del giornalismo italiano (spesso prestate alla tv) si ispirano a Indro Montanelli e Mario Cervi, che per decenni hanno banalizzato l’esperienza storica del fascismo descrivendolo come un regime da operetta, autoritario sì ma tutto sommato non violento come il nazionalsocialismo.

E pazienza per quell’incidente di percorso dei tribunali speciali, della spavalderia nell’uso del manganello (santificato dal culto del littorio), delle leggi razziali e dei milioni di morti sui fronti di guerra. In fondo Benito Mussolini aveva cercato il bene della patria e se non era riuscito a forgiare una razza di camerati guerrieri pronti a farsi ammazzare, era solo colpa degli italiani popolo di rammolliti e traditori, indegni eredi della grandezza imperiale di Roma.

Del resto, qualche anno fa andava di moda parlare di “morte della patria”, ma poi ci siamo accorti che con l’8 settembre del 1943 a morire era stata solo la nazione fascista, per far posto a una nuova patria democratica, nata nei giorni cupi del confino a Ventotene, fondata su giustizia e libertà.

Oggi con toni spavaldi (e anche un po’ ossessivi) si torna a parlare di nazioni come comunità di destino, di sangue e di stirpe, da proteggere (o esaltare a seconda dei casi) trincerandosi dietro la riconquista di una sovranità nazionale, da difendere in nome dello ius sanguinis, con buona pace di chi prende carta e penna fino al punto di scrivere al presidente della Repubblica per raccontare di un amore patriottico per l’Italia, luogo di affetti, di lingua, di comune sentire.

Fare gli italiani

Si dice che il sovranismo nazionalista sia il frutto avvelenato delle democrazie occidentali e l’ultimo effetto di politiche neoliberiste, a dir poco fallimentari nel superare quelle diseguaglianze che generano rancori e disillusioni in una società. E certo sono molto più seducenti le parole d’ordine della destra che prendono a picconate lo ius soli perché altrimenti saremmo invasi dall’Africa, con i migranti che attentano all’onore delle nostre donne (per poi dimenticarsi delle statistiche che imputano la maggior parte dei reati di stupro e femminicidio proprio al maschio bianco, di pura razza italiana).

Di certo lo storytelling della sinistra si è rivelato fragile, con la bandiera dell’accoglienza in nome di un dovere etico o di un vantaggio economico (senza dare risposte a quei cittadini italiani che vivono disagio e povertà). Perché se abito in un quartiere come Torre Maura o Casal Bruciato non c’è niente di più facile che credere a un capro espiatorio diverso da me per cultura, pelle, religione, a cui dare la colpa se non lavoro e la mia vita è a pezzi. E magari stringersi alla confortante idea di un’identità nazionale da recuperare per condividere “cultura, tradizioni e valori”.

Peccato che le nazioni non siano entità prestabilite una volta per sempre, ma comunità immaginate. Ovvero società nate per effetto di strategie d’integrazione politica, pensate per cementare un senso di solidarietà e d’identità laddove questo manca o non è mai esistito.

Vale perlomeno dal XVIII secolo (dai tempi della vecchia e cara Rivoluzione francese): sono gli stati a fare le nazioni, e non il contrario. Non è un caso che Massimo d’Azeglio avesse esclamato (senza timore di essere smentito) che «fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani». E come infondere un senso d’appartenenza nazionale a milioni di donne e uomini, contadini, artigiani, operai (in gran parte analfabeti) che l’italiano non lo sapevano nemmeno parlare (figuriamoci scriverlo) e che a stento sapevano dove fosse Roma, capitale del nuovo Regno d’Italia? Come costruire un’identità patriottica in un paese diviso da tradizioni diverse, dialetti diversi e il cui mondo non andava oltre il campanile di una chiesa? Semplice: attraverso un immaginario comune, capace di creare una memoria collettiva.

Stranieri in patria

Scuola, esercito, stampa, furono per molto tempo meravigliosi strumenti per apprendere il senso di appartenenza nazionale. E ancora statue e monumenti ai caduti (che celebravano il culto del sangue versato per la grandezza del suolo patrio), rituali, simboli (l’Italia ritratta come una donna che allatta i suoi figli, patrioti liberi). E infine bandiere, inni, poesie, melodrammi e opere liriche.

Ma poi poteva anche capitare di sentirsi stranieri in patria. Proprio come era accaduto al figlio di Maria Bergamas (colei che avrebbe scelto le spoglie del milite ignoto, il soldato senza nome inumato al Vittoriano, simbolo immortale della rigenerazione nazionale). Un ragazzo friulano di neppure vent’anni che aveva scelto di andare a combattere con l’esercito italiano, all’epoca nemico, visto che il Friuli era sotto il dominio asburgico. Per lui la patria era l’Italia, quella chiamata a rendere gli uomini liberi contro la tirannide.

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