Il trapper non può cantare certe parole dei suoi testi in uno spettacolo pubblico aperto a tutti e finanziato dalle istituzioni. Il Comune di Roma ha preferito scaricarlo. Ma chi grida alla censura dice sciocchezze. La libertà di espressione è sacra e può avere solo i limiti della legge che sanziona un linguaggio intriso di odio razziale, religioso o etnico. Manca però un tassello a quella norma: le manifestazioni di odio di genere
«Prendi la tua troia, le serve una museruola. Metti un guinzaglio alla tua ragazza. Ci vede e si comporta come una troia. La tua tipa tra i miei seguaci. Mi vede e dopo apre le gambe. La scopo e poi si mette a piangere». Tony Effe queste parole non può cantarle in uno spettacolo pubblico aperto a tutti e finanziato dalle istituzioni.
Poteva presentarsi sul palco con altre canzoni, non con quelle che incitano all’odio di genere. Ma il comune di Roma non ha seguito questa strada di buon senso. Ha preferito scaricare il cantante: così si è gridato alla censura. Una sciocchezza, perché non è vero che lui, come chiunque altro, può dire e cantare quello che vuole: la legge Mancino del 25 giugno 1993 sanziona e condanna frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l'incitamento all'odio, alla violenza, alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Un limite, certo. Ma comprensibile se si pensa alle peggiori derive del Novecento.
D’altra parte, il percorso per la conquista della libertà e l’abbattimento della censura esercitata dal potere politico-religioso è stato lungo e difficile. La sconfitta di ogni autorità censoria è una delle grandi conquiste del secolo dei Lumi. La stessa storia dei libri proibiti nel Settecento francese, raccontata brillantemente dallo storico Robert Darnton, dimostra quanto fosse aspro e pervasivo l’accanimento del potere contro le pubblicazioni che erano ritenute pericolose per l’ordine costituito.
Oltre ai saggi autorevoli, a partire dalla stessa Encyclopédie, la censura cercava di impedire anche la circolazione dei tanti pamphlet esplicitamente pornografici i cui protagonisti erano i nemici della libertà, il clero e i nobili. Perché lì, era il potere ad essere messo alla berlina. Allora, il desiderio di libertà era comunque così forte che editori e librai rischiavano pene severe, fino alle morte, per aver prodotto, diffuso e venduto quei lavori.
E ancora oggi, nei paesi più repressivi, dall’Iran all’Afghanistan, scrivere testi non conformi ai voleri del potere apre le porte alla galere e ad altre forme di repressione. Il Pen club ricorda che nel 2023 erano 339 gli scrittori imprigionati in 33 paesi, con un drammatico incremento rispetto all’anno prima.
La libertà di espressione rimane una conquista incerta e instabile. Anche in Italia le pressioni nei confronti dei giornalisti con le querele e altri atti persecutori da parte delle forze di governo richiedono attenzione. Sono segni premonitori e inquietanti di una tendenza. Segni ancora parziali e marginali, ma quando il governo definisce reato penale la protesta non-violenta come il sit-in, entriamo già in un terreno non-liberale, in continuità ideale con i razzisti dell’Alabama lanciati all’assalto contro i manifestanti per i diritti civili di Martin Luther King.
La libertà di espressione è quindi sacra, e può avere solo i limiti della legge che sanziona un linguaggio intriso di odio razziale, religioso o etnico. Manca però un tassello a quella norma: le manifestazioni di odio di genere, in qualche modo evocate dalla convenzione di Istanbul, firmata anche dall’Italia. Le parole di Tony Effe esprimono disprezzo nei confronti del genere femminile.
Quel sentimento che dimostravano, mutandis mutandis, gli stupratori seriali di Gisèle Pelicot, la donna drogata e abusata da almeno settanta persone con la complicità del marito, condannato a vent’anni nel processo conclusosi giovedì.
La distinzione fondamentale è tra ciò che può essere fruito privatamente acquistando un libro, un disco, un giornale, e quello che circola nello spazio pubblico a spese del contribuente. Chi vuole acquistare le canzoni di Tony Effe può farlo liberamente. Ma concedere, da parte di una istituzione, uno spazio potenzialmente fruibile da tutti, è altra cosa. E non c’entra nulla con la censura. Infatti canterà liberamente le sue strofe in uno luogo diverso, accessibile a chi vuole andarci.
Poi rimane il giudizio su chi definisce troie le donne e si vanti di farle piangere dopo averle… Qualcuno pensa che ad un concerto degli anni Settanta potessero essere accettate dal pubblico espressioni come queste? O non ci sarebbe stato l’assalto al palco? Evidentemente è passata molta acqua sotto i ponti, e tutt’altro che limpida.
Emerge un abisso culturale tra la mercificazione del corpo femminile dilagata dagli anni Novanta in poi, e di cui le veline e le olgettine sono state una delle tante espressioni, e l’idea di eguaglianza di genere, che comprende il rifiuto dell’oggettivazione della donna, una “cosa” da tenere al guinzaglio.
Meglio lasciare libero corso alla prima tendenza o tenere alta la bandiera della dignità e del rispetto, nella fattispecie di genere?
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