“Rabbia” è la passione che domina la politica del Ventunesimo secolo. Genera e allo stesso tempo riflette la tendenza alla semplificazione, alla divisione netta tra amici e nemici, tra buoni e cattivi, tra noi e loro. La rabbia non alleva rivoluzionari e non si cementa nelle contese a viso aperto. È una passione contagiosa che alimenta gesti irrazionali ed estremi. Unisce individui socialmente isolati che sentono pesante l’impotenza della loro cittadinanza, vuota di progetti e ideali di futuro, ripiegata sul passato, mitizzato come una reliquia.

Proiettati a riportare le lancette indietro al tempo andato, dove l’immaginazione situa tutto il bene del mondo, un ordine morale che non c’è più. La rabbia deruba del futuro e fa spreco del presente. In un libro dedicato alla rabbia, Carlo Invernizzi Accetti la identifica come la sorgente delle principali mobilitazioni politiche del nuovo secolo, quelle che hanno chiuso gli anni da Belle Époque, gli ultimi due decenni del vecchio secolo quando si celebrava la «fine della storia». Sepolta l’utopia rivoluzionaria, vinta la guerra contro il modello socialista, la democrazia sembrava alla fine riuscita a convivere con il capitalismo. La triade liberté, égalité, fraternité, sembrava aver trovato il proprio altare nella democrazia elettorale.

La promessa della democrazia

Oggi, il 14 luglio di un anno determinante per la democrazia, ci si presenta in tutto il suo splendore hollywoodiano la parodia di quella religione laica.

La democrazia non riesce con certezza a vincere la violenza portando i cittadini al seggio, non riesce a sostituire il sasso con la scheda elettorale, il taglio delle teste con il conteggio dei voti. La democrazia elettorale aveva promesso e promette la successione al potere in un clima di civile accettazione: si combatte a viso aperto, con argomenti, promesse, sfide sul futuro e poi si accetta l’esito. La democrazia insegna come si perde e, quindi, come si vince. Il 6 gennaio 2021, questo insegnamento è stato incrinato in una maniera radicale.

L’attacco al Campidoglio, con la regia indiretta ma non timida dello sconfitto presidente Donald Trump, ha lasciato una ferita non ancora rimarginata. Ha immesso la violenza direttamente nella democrazia elettorale. Ha abituato molti repubblicani a pensare che la lotta politica non finisce nei seggi. Che può (e deve) continuare con la forza della “mob”, della folla canaglia. Il 6 gennaio 2021, la competizione politica libera e civile ha conosciuto un blocco mai superato. Perché gli argomenti ragionevoli e il discorso non smontano la rabbia, né la politica della competizione elettorale riesce a sedarla.

La rabbia ha macchiato di sangue la campagna elettorale a Butler, una cittadina di poco più di diecimila abitanti, a nord di Pittsburgh, una delle aree più povere della Pennsylvania; un tempo centro industriale importante (meta di tanti immigrati, italiani e polacchi, per molta parta del secolo) e oggi con un livello di povertà pari al 22 per cento della popolazione e una classe media poco abbiente. Nel corso del comizio repubblicano, alcune pallottole hanno ferito almeno due persone, tra le quali Trump, e ucciso un cittadino che partecipava al comizio. Tante saranno le illazioni e le fantasiose interpretazioni che si succederanno in queste ore. Si sa per il momento che l’attentatore, Thomas Matthew Crooks, veniva dalla contea di Allegheny, il cui capoluogo è Pittsburgh, sede di una prestigiosa università e città amabile e bella. Non depressa né povera.

Crooks è stato freddato all’istante dalla security. Aveva 20 anni ed era iscritto come elettore repubblicano; si dice che odiasse Trump. Non sappiamo ancora nulla di questo ragazzo e nulla possiamo dire con certezza. Ma non ci si deve sorprendere se un repubblicano “odia” Trump.

Trump ha fagocitato odio e generato rabbia da quando ha deciso di scendere in campo. Soprattutto dopo il Rubicone del 6 gennaio 2021. Da allora, il Partito repubblicano ha vissuto tormenti interni non piccoli. Non è toto corde con il suo candidato, e nel corso di questi ultimi anni, una parte di esso si è estraniata dal trumpismo, non solo un nomignolo che indica i sostenitori dell’oligarca newyorkese.

Due facce

Il trumpismo ha acquisito il manicheismo populista. Per alcuni repubblicani è un peso, quasi un’onta che ha contribuito a rendere il Gop un’opposizione illegittima, violando quella che è, a ragione, l’onore della storia politica americana: essere riusciti ad avere una Repubblica, una e plurale, senza rinunciare alla dialettica tra maggioranza e opposizione.

Il 6 gennaio 2021 ha messo in discussione questo portato storico e principio politico, e ha dimostrato che il Partito repubblicano non è affidabile. Intervistati nel corso delle primarie che si sono tenute nella primavera scorsa, alcuni repubblicani hanno quindi espresso preoccupazione per dover legare la propria storia a quella di Trump, del quale avevano apprezzato il messaggio innovatore quando si era candidato la prima volta ma vedevano in questo secondo Trump un candidato ringhioso, risentito, tutto proteso al passato, alla ricerca della vendetta contro i nemici. Per diversi repubblicani “leali alla Repubblica” il secondo Trump non è un candidato ideale.

Un’altra parte degli intervistati, invece, certamente la maggioranza, diceva di vedere in Trump una figura dai tratti religiosi. Diversi intervistati non avevano dubbi nel sostenere che Trump fosse l’uomo della Provvidenza, mandato da Dio per liberare il paese dalla malapianta liberal (progressista) che infanga l’onore della nazione concedendo diritti a chi ama e sposa contro natura, che indebolisce la “razza” bianca tenendo aperte le frontiere con i paesi del sud del continente, che spreca soldi per la difesa di un’Europa ricca e che non ha più il nemico sovietico dal quale difendersi.

Make American Great Again (MAGA) è un refrain che ricorre quando la battaglia politica si fa incandescente. Trump appartiene alla numerosa e varia famiglia populista americana, quella che dal dopo New Deal si è mangiata ogni lascito progressista del vecchio populismo di fine Ottocento. Come ha scritto Richard Hofstadter, dal New Deal in poi, il nome populismo ha cessato di essere associato alla democrazia progressista, per abbracciare il nazionalismo e la retorica della reazione contro «l’invasione degli immigrati» (che comunque esisteva anche nel populismo progressista), nonché contro le politiche redistributive dei governi federali che estendevano i regolamenti burocratici e aumentavano le tasse, scelte sempre più frequentemente identificate con stratagemmi dell’establishment liberal per “succhiare” sangue ai lavoratori e alla classe media.

Le implicazioni positive del populismo del People’s Party (1892) erano praticamente scomparse. Appartenevano a ben vedere a un passato antecedente alla democrazia liberale, prima che si imponesse un’economia sociale basata su una forte classe media, uno stato regolatore, una società dei consumi di massa e un benessere in teoria accessibile a tutti – tutte cose che vennero dopo la Grande depressione e, soprattutto, dopo la Seconda guerra mondiale, l’evento che ha cambiato la natura degli Stati Uniti e la idea stessa di democrazia.

Dopo il New Deal e la guerra, il populismo è diventato il nome della politica fondata sulla paura e alimentata dalla rabbia. Paura dell’erosione del benessere, il “valore” materiale che ha fatto la grandezza dell’America. Rabbia contro chi mette ostacoli al progetto di fare grande l’America. MAGA è il mito che compone il tessuto connettivo dell’America. Rilanciato, ma non inventato, da Trump. È un proposito di religione civile e materiale che come un fiume carsico rinasce e trova sempre nuovi eroi, quegli uomini provvidenziali che marcano il tempo storico del mito americano. Trump ha fatto proprio questo mito con il quale ha inaugurato il nuovo secolo. Il viso insanguinato e il pugno rivolto al cielo diventeranno le icone di questa campagna ai limiti della democrazia.

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